Anche nel mondo della politica sono ancora parecchi a far riferimento alla fede cristiana. O, meglio, alla religiosità di matrice cristiana, quando resta una ritualità fatta di gesti esteriori che spesso non corrispondono alla vita e alle scelte di vita.
Scene come quelle viste ieri sera a Trieste, all’ingresso del Porto Vecchio, noto per essere diventato rifugio per i migranti a cui nessuno provvede se non qualche associazione e realtà umanitaria, ne sono la conferma: a fronte di un’improvvisa pioggia torrenziale che ha provocato allagamenti in gran parte del centro città e pure in quel luogo di riparo notturno, tanto da sommergere con un fiume d’acqua coperte ed effetti personali, c’è una città cosmopolita e multireligiosa, che, attraverso le sue istituzioni, non sa assumersi la responsabilità della salute, della sicurezza, dei diritti fondamentali della gente che in essa vive o vi transita, mostrando verso di essa un volto indifferente e colpevolmente silente quando non addirittura cinico, ostile e nemico. Se non fosse stata per l’accoglienza emergenziale della parrocchia vicina, nessuna delle istituzioni si è minimamente interessata.
Eppure non esiste una fede cristiana che non cerchi la giustizia e la solidarietà, la compassione e la misericordia. Cose che sono autenticamente umane e che — credenti in Dio o meno — in cuor nostro ricerchiamo per vivere felici. Sull’onda del Concilio Vaticano II, sono convinto che ciò che è autenticamente umano è anche veramente spirituale, e il criterio dell’autenticità spirituale è il rispetto della verità dell’umano. Ne sono testimonianza la pagina delle Beatitudini e il capitolo 25 del Vangelo di Matteo (ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, sete e mi avete dato da bere, ero nudo e mi avete vestito, straniero e mi avete accolto, malato e carcerato e siete venuti a trovarmi…).
Per questo non esiste nemmeno una mistica — cioé una vera esperienza che permetta di incontrare il divino — senza il volto dell’altro. È da tempo che mi sono convinto di come sia l’incontro dei volti a “salvarci” la vita: a svelare chi siamo e chi vogliamo essere nei confronti dell’altro (sia esso con la “A” maiuscola o minuscola), chi è per noi e come possa essere un dono che mi rilancia quell’alterità che mi completa e mi tira fuori da quella sorta di solitudine esistenziale che in me alberga.
La fede cristiana è dunque una mistica dagli sguardi slanciati, che cerca il volto, che porta prima di tutto all’incontro con gli altri che soffrono, all’incontro con la faccia degli infelici e delle vittime, dei poveri e dei rifiutati, degli umiliati, degli sfiduciati e degli scartati. La vita dell’umanissimo Gesù di Nazaret ne è ancora palese e tangibile dimostrazione.
Questo primo quarto del XXI secolo non è stato foriero di prospettive di cristianità, tanto meno di autentica umanità: dalla Striscia di Gaza all’Ucraina, dalle altre circa cinquanta guerre fratricide, che si stanno consumando nel mondo e delle quali per nostra miopia sappiamo (e vogliamo sapere) ben poco, a quanto siamo spettatori nel nostro occidente e nelle nostre relazioni interne, familiari (pensiamo solo al dramma del femminicidio e alle sofferenze che abitano i cuori di molte persone abbandonate alle loro inquietudini).
Eppure “gli occhi aperti e vigili — ripeterebbe oggi il teologo J.B. Metz — ordiscono in noi la rivolta contro l’assurdità di una sofferenza innocente e ingiusta; essi destano in noi la fame e la sete di giustizia, della grande giustizia per tutti, e ci impediscono di orientarci esclusivamente all’interno dei minuscoli criteri del nostro mondo di meri bisogni”. La rivolta.
Ed è proprio questo che mi porta a dire che è una tentazione rassegnarsi al male vivendo con gli occhi sbarrati e senza reagire; ma è una tentazione anche chiudersi con paura o arroganza nel privato che giudica e condanna, esclude e alza muri. Nonostante tanta disumana indifferenza sepolta sotto un tragico e opportunistico silenzio, soprattutto istituzionale, c’è gente semplice che vive di una “mistica degli occhi aperti” e che sta già costruendo la Storia con la “S” maiuscola. Magari senza professare il Dio di Gesù Cristo («Ma quando, Signore, ti abbiamo servito?… Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me»), ne vivrà i tratti essenziali fino a ribellarsi al menefreghismo che porterebbe a girarsi dall’altra parte, fino a sentire di dover far fronte all’assurdità di sofferenze innocenti e ingiuste di persone che incontra sulla propria strada e, pur non essendo del proprio “giro”, con esse condivide un tratto di cammino.
Sono ancora quei volontari e quelle volontarie, che perseverano non senza fatica a operare nel silenzio e nella gratuità, e quanti nel loro piccolo e col proprio lavoro si impegnano a costruire città più fraterne, giuste e solidali, a seminare semi di futuro, a consegnarci il sogno di una Europa nuova. Sono quegli occhi aperti sul mondo a essere i fari che stanno già orientando il cammino di questa umanità verso un domani pacificato, “disarmato e disarmante”, che non annegherà nella trascuratezza e nell’indifferenza.
