Se Aylan, il cui corpicino fu rinvenuto su una spiaggia turca, sdraiato a faccia in giù, fosse ancora vivo avrebbe tredici anni. Se il suo paese non fosse stato distrutto da una guerra civile causata da un dittatore sanguinario, vivrebbe felice la sua adolescenza insieme alla sua famiglia.A dieci anni dal naufragio in cui perse la vita con la mamma e un fratellino, da quell’immagine che lo ritraeva composto in una morte che non dovrebbe toccare a chi ha appena tre anni, ci ricorda una tragedia che interessa ancora oggi tanti, troppi bambini, ma anche la nauseante ipocrisia di un mondo che non dà mai seguito ai suoi stucchevoli e insinceri “mai più”.
Se Aylan, vittima di uno dei tanti viaggi disperati in mare, avesse potuto vivere, crescere, andare a scuola, affrancarsi dal ricordo di quelle onde cattive, di quel mare freddo, di quella paura sul volto della sua mamma, morta con lui, o del suo papà – che disperato vive con la “colpa” d’aver tentato la fuga dalla guerra, avremmo mai conosciuto la sua storia?Sono passati dieci anni da quella tragica immagine del suo orpo senza vita sulla battigia di Bodrum che sconvolse il mondo e scosse le nostre coscienze, per un istante.
Poi tutto è continuato nello stesso abulico modo.
Ricordo ancora il senso di sgomento collettivo, la volontà di cambiare, la promessa di fare “di più”… Eppure, pochi giorni, e a distanza di un decennio con migliaia di altri morti in mare di ogni età, ci troviamo di fronte a una realtà che, come spesso accade, sembra aver cancellato quel senso di urgenza, di responsabilità condivisa.
L’immagine di Aylan ha rivelato l’ipocrisia di un sistema che spesso si accontenta delle parole di circostanza e delle opere minime. Mentre le sue spalle e il suo volto riempivano gli schermi, ci promettevamo solidarietà, impegno, azioni concrete. Poi, il tempo ha lasciato spazio all’indifferenza, alla routine, all’oblio. Le rotte dei migranti si sono fatte più pericolose, le frontiere più chiuse, le responsabilità più sfocate. E noi, invece di ascoltare davvero, abbiamo continuato a scambiare le immagini per un segno di cambiamento, ma senza cambiare nulla di sostanziale.
L’indignazione, come spesso accade, si affievolisce con il flusso continuo di notizie e di stimoli effimeri. Così, mentre i numeri dei morti lungo le rotte migratorie salgono, noi ci troviamo quasi più abituati a sentire che a sentire davvero. La verità è che questa “filiera dell’indignazione” funziona da sempre: uno scatto, un tweet, una protesta momentanea, e poi il silenzio. Come se il dolore e la sofferenza potessero essere alimenti per il nostro prestigio digitale, ma non per il nostro senso di responsabilità.
La stessa logica vale anche nell’economia, nel mercato, nel nostro stile di vita. Continuiamo a comprare, consumare, vestire – spesso senza chiedersi da dove derivano quei prodotti, a quali costi umani e ambientali. La sostenibilità diventa solo una pergamena da esibire a fini di immagine. Con un clic, scarichiamo le responsabilità sui paesi poveri, sui lavoratori sfruttati, sulle filiere opache. E allora, ci chiediamo, cosa cambierà se non ci cambiamo noi per primi? Se non decidiamo di fare scelte che vadano oltre il coinvolgimento effimero?
Il mondo della comunicazione e dell’informazione ha ormai interiorizzato questa logica: il dolore diventa contenuto, la tragedia un format, l’emergenza un’occasione di visibilità. La pornografia del disastro alimenta il nostro bisogno di emozioni forti, senza più un passo avanti. È questa la vera sfida: non mostrare al mondo un’immagine triste per sentirci migliori per un giorno, ma guardarci nello specchio e chiederci quanto siamo disposti a pagare di personale, di quotidiano, per costruire un mondo diverso.
Ricordo ancora le parole di molti colleghi e attivisti di allora: il vero cambiamento nasce dal quotidiano, dalle azioni concrete, dall’abbattimento delle menzogne imposte dalle logiche di mercato e potere. Ma sono passati dieci anni, e mentre la memoria si oscura tra i tanti feed e le nuove crisi, molte di quelle battaglie sembrano essere rimaste incompiute.
La domanda, allora, è ancora quella di sempre: cosa siamo disposti a fare affinché quelle tragedie non si ripetono più? La risposta, scomoda ma realistica, non cambia: finché ciò che ci richiede cambiamento minaccia il nostro stile di vita, continueremo a voltare lo sguardo dall’altra parte. La verità è che le lacrime sono gratuite, ma i cambiamenti – quelli veri – richiedono impegno, sacrificio, coerenza.
Non ci sono facili soluzioni né lieti finali. La speranza non è più nei gesti simbolici o nelle dichiarazioni di circostanza, ma nella volontà di praticare quotidianamente la solidarietà, la giustizia, la sostenibilità. Si comincia con le scelte di ogni giorno: cosa compriamo, come ci comportiamo, come riconosciamo la nostra responsabilità in un mondo sempre più interconnesso e complesso.
L’immagine di Aylan, e le altre che si sono susseguite in questi dieci anni, devono restare un monito. Non basta guardarle: bisogna vederle. Non basta provare pietà. La vera sfida non è solo fare fronte alle emergenze, ma trasformare il nostro modo di vivere e di essere, agendo in modo concreto.
Solo così potremo sperare di costruire un futuro in cui la memoria di quel bambino e di tante altre vittime non sia più un ricordo sfocato, ma un motore di cambiamento reale.
Perché, come insegnava un caro amico, Gino Strada – che a chiusura di questo editoriale voglio ricordare – l’umanità non può permettersi di perdere la capacità di guardare e di agire.
