Il 10 agosto 2025 a Gaza una tenda allestita di fronte all’ospedale al-Shifa è stata colpita da un raid israeliano. In quella tenda si concentravano i giornalisti che cercavano di raccontare la devastazione quotidiana, con gli strumenti poveri ma necessari della loro professione. Tra loro c’era Anas al-Sharif, giovane cronista di Al Jazeera, che pochi minuti prima aveva documentato in diretta l’intensificarsi dei bombardamenti sulla città. È stato ucciso insieme a diversi colleghi, e la sua voce, che da anni raccontava la tragedia di Gaza, è stata cancellata. Ma la morte di Anas non è solo una nuova vittima da aggiungere a un elenco che si fa ogni giorno più lungo, è diventata il simbolo di uno scatto di qualità in negativo: l’esercito israeliano lo ha accusato di essere un terrorista travestito da giornalista. Quella formula, rilanciata anche da alcuni media europei e italiani, tra cui Repubblica, è stata persino trasformata in un titolo: “giornalista-terrorista”. Un trattino che pesa come una sentenza, un segno grafico che segna la fine di un diritto, una grammatica della guerra che cancella il valore universale di chi testimonia.
Non siamo di fronte a un errore, a una confusione di ruoli come purtroppo accaduto in passato in altre guerre, basti ricordare il caso di Andy Rocchelli ucciso nel Donbas e subito avvolto nel sospetto che fosse qualcosa di diverso da un fotoreporter. Qui siamo davanti a una costruzione sistematica: se il giornalista è terrorista, allora eliminarlo non è solo giustificabile, ma necessario. È la legittimazione linguistica di una politica militare che vede negli occhi indipendenti un pericolo più grande delle armi. Perché un cronista non spara, ma mostra, e in quella immagine c’è la condanna più grande.
I numeri certificano che non è un episodio isolato. Secondo il Committee to Protect Journalists dall’inizio della guerra sono stati uccisi almeno 192 giornalisti e operatori dei media, di cui 184 palestinesi. La Federazione internazionale dei giornalisti parla di oltre 200. Mai nella storia contemporanea la stampa è stata falcidiata in questo modo. Mai la scritta PRESS sui giubbotti è stata così chiaramente trasformata in un mirino. È il più grande massacro di giornalisti del nostro tempo, eppure in troppe capitali del mondo si tace o si accetta il racconto ufficiale che li confonde addirittura per terroristi.
In Europa negli anni scorsi si era lanciata la campagna “Journalism is not a crime”, a difesa dei cronisti scambiati per militanti. Oggi quella formula deve essere aggiornata: JOURNALISM IS NOT TERRORISM. Perché qui il salto è avvenuto, e la criminalizzazione non riguarda più solo la pratica del giornalismo ma la sua stessa identità. È il tentativo di cancellare il diritto di testimoniare associandolo al più infamante dei reati. Di fronte a questa torsione semantica non bastano le condanne rituali, serve una presa di posizione netta delle istituzioni, delle comunità democratiche, dei cittadini. Perché non si tratta di difendere una corporazione ma il diritto di ciascuno ad avere accesso alla verità.
E non c’è bisogno di guardare solo a Gaza per capire che la stampa è percepita sempre più come nemico. Lo dimostra, su un altro piano, il fuori onda di Giorgia Meloni al summit con Donald Trump, quando ha confidato in inglese “I never speak with the press”. Un dettaglio, forse, ma rivelatore: il giornalismo non è più interlocutore, ma fastidio, ostacolo, minaccia. È lo stesso clima, declinato con mezzi diversi: lì con le bombe e i comunicati, qui con il silenzio e il disprezzo. Ma la logica è identica: delegittimare la funzione di chi fa domande e porta verità.
Il giornalismo non è terrorismo. Ripeterlo oggi non è retorica, è un atto di difesa civile. Perché ogni volta che un giornalista viene etichettato come nemico si apre la strada all’impunità per chi lo ha ucciso. Perché ogni volta che accettiamo un trattino tra giornalista e terrorista rinunciamo a un pezzo di democrazia. Perché ricordare Anas al-Sharif come cronista, e non come volevano i suoi assassini, significa difendere la memoria di tutti i giornalisti caduti e il diritto dei cittadini a conoscere. Journalism is not terrorism: da qui bisogna ripartire, senza esitazioni e senza compromessi.
