Giornalismo sotto attacco in Italia

“TeleMeloni”: l’ultima fermata

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Per comprendere “TeleMeloni”, bisogna compiere qualche passo indietro. Non dobbiamo tornare alla RAI dei “Professori” o a quella di Letizia Moratti, esperienze degli anni Novanta che hanno avuto un impatto ma sono ormai lontane nel tempo. E nemmeno possiamo far riferimento alla stagione di Fabrizio Del Noce e Agostino Saccà, anch’essa distante oltre vent’anni. Pensiamo, piuttosto, all’esperienza di Marcello Foa, presidente dell’evo giallo-verde, più verde che giallo a dire il vero, assurto ai vertici dell’azienda ai tempi del governo fra M5S e Lega. Non entriamo nel merito del personaggio: ci limitiamo a dire che quell’esperienza rappresentò per i 5 Stelle la “perdita dell’innocenza”, pur avendo scelto il bravo Fabrizio Salini come amministratore delegato e il discreto Giuseppe Carboni come direttore del Tg1. Quanto a Foa, diciamo che alcune delle sue posizioni, piuttosto tendenti al sovranismo e non sempre distanti dalla predicazione di Steve Bannon, animatore e ispiratore del MAGA trumpiano, lo resero fin da subito un personaggio emblematico del salvinismo di governo, difficilmente distinguibile da quello di lotta.

La situazione, tuttavia, peggiorò nettamente con l’arrivo dei “Migliori”, capitanati da Draghi, cui tutto veniva concesso senza fare un plissé. Ebbene, alla guida della RAI venne spedito Carlo Fuortes, con Marinella Soldi presidente, e non ci allontaneremmo troppo dalla realtà se affermassimo che la loro avventura si sia rivelata un sostanziale fallimento. Una realtà che ci conduce fino all’oggi, per l’appunto a “TeleMeloni”. Quando sentite questa definizione, fate attenzione a chi la pronuncia. Non tutti, infatti, possono permettersi di dare battaglia in questi giorni bui. Non chi ha taciuto sulle leggi Gasparri e Frattini, per esempio, quando il conflitto d’interessi berlusconiano venne talmente normalizzato che oggi quasi nessuno, salvo rare eccezioni, prende parola per sostenere che non sia per niente normale che Pier Silvio Berlusconi, degno erede di suo padre, detti la linea politica di Forza Italia e del governo durante la presentazione dei palinsesti di Mediaset. Non chi ha avuto l’opportunità di modificare la Gasparri ma non lo ha fatto. Non chi avrebbe dovuto vigilare sull’operato della RAI berlusconiana ma, di fatto, si voltò dall’altra parte. E non chi non fa nulla di nulla, pur dicendosi opposizione, per costruire un’alternativa all’altezza. E così si giunge ai giorni nostri, allo European Media Freedom Act, il cui articolo 5, che sanziona lo strapotere del governo sul CdA RAI e, di conseguenza, sull’autonomia dell’azienda (è l’annosa questione delle fonti di nomina), pone di fatto l’Italia fuorilegge. E il bello è che hanno ragione i meloniani, con alleati al seguito, quando sostengono che il disastro attuale sia figlio dell’era renziana. Da qui le nostre perplessità, per usare un eufemismo, sul suo coinvolgimento nella coalizione che dovrebbe sfidare la destra nel 2027.

Una considerazione conclusiva la meritano i programmi. Abbiamo citato tante stagioni tristi del servizio pubblico, piene di censure, bavagli ed episodi incresciosi. Mai, però, si era giunti ai livelli attuali. Mai erano stati messi nelle condizioni di andarsene così tanti professionisti di valore. Mai erano state chiuse persino trasmissioni filo-governative fino al midollo. Mai gli ascolti erano risultati così bassi. Mai una fetta significativa del pubblico colto, il cosiddetto “ceto medio riflessivo”, come lo definì Paul Ginsborg, era trasmigrata verso altri lidi, a cominciare da La7 e la Nove ma addirittura verso Retequattro, se prendiamo in considerazione gli appassionati di Bianca Berlinguer. Gramellini, Augias, Floris, Gruber, Formigli, la stessa Berlinguer e via elencando: ormai esiste una RAI fuori dalla RAI che ricorda l’esodo degli italiani di inizio Novecento verso gli Stati Uniti o il Sud America. Ora la nuova “America” è diventata La7, e in RAI, nonostante professionalità di prim’ordine, spesso ostacolate fino a neutralizzarne il talento, assistiamo a una desertificazione senza precedenti.

Angelo Guglielmi, Stefano Balassone, Emanuele Milano, Massimo Fichera, Sandro Curzi, Bruno Voglino, Stefano Munafò e l’elenco potrebbe estendersi a dismisura: bei tempi quando personalità diversissime contribuivano, comunque, a rendere il servizio pubblico ciò che ha rappresentato nella storia del nostro Paese!

Roberto Morrione, compianto fondatore di Rai News 24, sosteneva: “Fai quel che devi, accada ciò che può”. Oggi il motto pare essere diventato: “Fai quel che puoi, accada ciò che deve”, dove per ciò che puoi si intende tacere e obbedire e per ciò che deve si intende l’attuazione di volontà superiori. Non è questione di nomi, non ha senso prendersela con questo o quel dirigente, ma di dignità: la dignità di un mondo che rischia di non esistere più.

Fra due anni si rinnova la Concessione decennale che lega la RAI allo Stato: lì capiremo se sussista ancora la volontà di avere un servizio pubblico degno di questo nome (reso pienamente indipendente da risorse certe e assegnate con quota fissa di anno in anno, senza perciò essere alla mercé del governo di turno in occasione della Legge di bilancio) o se il timore di alcuni di uno spezzettamento del canone e di un ridimensionamento della stessa RAI sia destinato a diventare realtà. Sarebbe il colpo di grazia a quel che resta della nostra democrazia.


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