È doveroso partire da una cena, una cena su cui girano miti e leggende d’ogni sorta e sulla quale, grazie a fonti affidabili, credo di poter fornire una ricostruzione abbastanza aderente alla realtà. È il settembre del 2000 quando Zaccaria, presidente della RAI, organizza un incontro conviviale a casa sua. Sono presenti, fra gli altri, l’onorevole Vincenzo Vita, il senatore Beppe Giulietti, il segretario dei DS Walter Veltroni, Pier Luigi Celli, direttore generale della RAI, e i due consiglieri d’amministrazione della RAI in quota centrosinistra Stefano Balassone e Vittorio Emiliani. Ebbene, Vespa arrivò ad accusare Zaccaria di aver tramato al fine di schierare l’azienda contro Berlusconi nell’imminente campagna elettorale, ricevendo una querela e dovendo corrispondere al querelante oltre ottantamila euro. Al massimo, vi fu una riflessione sul fatto che le seconde serate appaltate a Porta a Porta dalle due iniziali fossero diventate quattro. Perché è importante questa cena? Perché spiega, almeno in parte, la furia berlusconiana che avrebbe condotto poi all’editto bulgaro. Berlusconi, infatti, era convinto che alcuni conduttori a lui palesemente ostili, a cominciare da Biagi, Santoro e Luttazzi, gli avessero fatto perdere una caterva di voti; da qui la triste battuta sull’“uso criminoso della televisione pubblica pagata con i soldi di tutti” pronunciata dal Cavaliere davanti a un gruppo di imprenditori durante una visita di Stato a Sofia.
Ma davvero Zaccaria potrebbe mai aver schierato la RAI contro Berlusconi? Ciò presupporrebbe la disponibilità dei diretti interessati a lasciarsi strumentalizzare: è da escludere. Se Luttazzi invitò Travaglio a presentare a “Satyricon” “L’odore dei soldi”, il suo saggio, scritto insieme al deputato dipietrista Elio Veltri, sulle fortune economiche di Berlusconi, è perché era un caso editoriale niente indifferente. Quanto a Santoro, le puntate de “Il raggio verde” dedicate ai rapporti fra Berlusconi e la mafia, erano sempre caratterizzate dalla par condicio: se da una parte c’era Roberto Morrione, dall’altra c’era Paolo Guzzanti, come avvenne ad esempio la sera del 16 marzo 2001. Quanto a Enzo Biagi, ha ragione il suo regista, nonché grande dirigente RAI, Loris Mazzetti quando sostiene che non sia stata l’intervista a Benigni a far imbestialire Berlusconi quanto l’essersi occupato, a sua volta, della puntata incriminata di “Satyricon” ma, soprattutto, la trasmissione del 27 marzo 2001 in cui ospite fu Indro Montanelli, il quale concordò con Biagi sul fatto che stessimo andando verso “una dittatura morbida, fondata non sulle quadrate legioni ma sui quadrati bilanci” e arrivò ad auspicare la vittoria del Cavaliere affinché il Paese potesse vaccinarsi. Il commento di Biagi, negli anni successivi, fu: “Mi sa che abbiamo sbagliato la dose!”.
Ebbene, l’ultima RAI in cui andava in onda l’informazione e al contempo la satira, con il genio dei fratelli Guzzanti e di Serena Dandini a “L’ottavo nano”, è stata quella di Zaccaria e Celli, con Renato Parascandolo alla guida di Rai Educational e conduttori del Tg1 del calibro di David Sassoli e Lilli Gruber.
Il berlusconismo non ha solo allontanato Biagi, Santoro e Luttazzi, Freccero dalla direzione di Raidue e molti altri ancora (un caso di scuola è la chiusura di “RaiOt” di Sabina Guzzanti dopo una sola puntata, 16 novembre 2003, per aver osato occuparsi della legge Gasparri): ha cambiato per sempre il volto del Paese, provocando una mutazione antropologica che è giunta fino a noi. A tal proposito, bisogna chiarire alcuni aspetti. Uno dei principali, cito sempre Mazzetti, riguarda proprio Biagi: obiettivo dell’allora direttore generale Agostino Saccà, difatti, non era far sparire Biagi dalla scena, anche perché ne aveva stima e si ricordava bene di quando Biagi l’aveva difeso, sulla prima pagina del Corriere, nel momento in cui il centrosinistra l’aveva allontanato dalla direzione di Raiuno; era chiudere “il Fatto” e lasciarlo a condurre delle seconde serate o, comunque, trasmissioni di alto livello ma meno urticanti rispetto alla sua striscia quotidiana subito dopo il telegiornale delle 20.
Cosa fece l’opposizione? Pochino. Anzi, quando venne chiuso “RaiOt”, l’ala “riformista” spiegò che quella non fosse satira. Quanto a Santoro, che già trent’anni fa veniva chiamato “il leghista rosso”, non ricevette grandi incoraggiamenti (per usare un eufemismo). Le prime visite a casa Biagi, infine, avvennero quasi quattro anni dopo l’editto bulgaro, rispettivamente il 23 gennaio (Gentiloni) e il 6 febbraio 2006 (Petruccioli); in mezzo, un grande senso di vuoto e alcune tragedie, personali e familiari, che lo segnarono in maniera definitiva.
A rianimare, in parte, un’opposizione in crisi, furono dunque i Girotondi promossi da Nanni Moretti, il quale prima gridò in piazza Navona “Con questi dirigenti non vinceremo mai!” (2 febbraio 2002), non ricevendo alcuna risposta da parte della dirigenza ulivista presente alla manifestazione, poi circondò simbolicamente viale Mazzini (10 marzo 2002) per protestare contro la deriva berlusconiana e, in conclusione, promosse una mega-manifestazione a San Giovanni (14 settembre 2002). A tenere la barra dritta, oltre a lui, furono in pochi: Paolo Flores d’Arcais e la redazione di “MicroMega”, “l’Unità” di Colombo e Padellaro, i professori fiorentini Paul Ginsborg e Francesco “Pancho” Pardi, l’associazione Articolo 21 e la cittadinanza attiva nelle sue molteplici forme ed espressioni, vissuta quasi sempre con fastidio dai vertici diessini, che dopo aver disertato Genova, disertarono anche il quinquennio successivo, richiamando Prodi quando era ormai chiaro che fosse l’unico a poter battere nuovamente Berlusconi e ottenendo il gramo risultato delle Politiche 2006.
Del resto, basta dare un’occhiata a queste dichiarazioni di Violante alla Camera per comprendere a che punto fosse la notte: “L’onorevole Berlusconi sa per certo che gli è stata data la garanzia piena, non adesso, nel 1994, che non sarebbero state toccate le televisioni quando ci fu il cambio di governo: lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta, e lo sa l’onorevole Letta. Comunque, a parte questo, la questione qui è un’altra: voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto d’interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni, avessimo aumentato, durante il centro-sinistra, il fatturato di Mediaset, che è aumentato di venticinque volte”. Anche noi, pertanto, gli rivolgiamo la domanda che gli pose Sabina Guzzanti in “Viva Zapatero!”: “Ma in nome di quale mandato elettorale sono state prese queste decisioni? E nell’interesse di chi?”.
Venne il 2006, già, ma nel frattempo, chiusi determinati programmi e fatti sparire determinati volti, era cambiato il Paese, assai più incattivito e incolto di come lo avessimo lasciato cinque anni prima.
Il renzismo: la tecnosinistra
E siamo dunque al renzismo, che venne dopo il fallimento epocale della politica nel biennio 2011-2013, quando tutti i partiti avevano di fatto abdicato al proprio ruolo per rifugiarsi sotto l’ombrello del montismo, favorendo l’ascesa del M5S, il movimento-partito fondato nel 2009 da Beppe Grillo in seguito al rifiuto del PD di concedergli la tessera e farlo correre alle proprie primarie per la scelta del segretario.
Ma qual era la posizione di Renzi in merito al servizio pubblico? Solo tre anni prima del suo arrivo a Palazzo Chigi, alla Leopolda del 2011, una delle sue proposte forti era quella di affollare la RAI di pubblicità come se fosse un’emittente privata, nel solco di un liberismo neanche troppo gentile che gli derivava dal desiderio di emulare il suo idolo Tony Blair, principale artefice del modello politico-economico ribattezzato, negli anni Novanta, “Terza via”.
Scriveva espressamente al punto 16 delle cento proposte programmatiche presentate in quell’occasione:
Cambiare la Rai per creare concorrenza sul mercato tv e rilanciare il Servizio Pubblico.
Oggi la Rai ha 15 canali, dei quali solo 8 hanno una valenza “pubblica”. Questi vanno finanziati esclusivamente attraverso il canone. Gli altri, inclusi Rai 1 e Rai 2, devono essere da subito finanziati esclusivamente con la pubblicità, con affollamenti pari a quelli delle reti private, e successivamente privatizzati. Il canone va formulato come imposta sul possesso del televisore, rivalutato su standard europei e riscosso dall’Agenzia delle Entrate. La RAI deve poter contare su risorse certe, in base ad un nuovo Contratto di Servizio con lo Stato.
E al punto 17:
Fuori i partiti dalla Rai.
La governance della Tv pubblica dev’essere riformulata sul modello BBC (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e l’Amministratore Delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica.
Ebbene, il Renzi che arrivò a mettere le mani sulla RAI era un leader in ascesa, forte nei consensi e sprezzante nei confronti degli avversari, interni ed esterni. Non a caso, la sua prima mossa fu la cessione di una parte delle torri di RAI Way per un totale di centocinquanta milioni di euro, soldi necessari per finanziare gli 80 euro, ossia la scommessa elettorale che gli avrebbe consentito di stravincere le Europee del 2014.
Nel merito, luci e ombre, anche se queste ultime superano di gran lunga le luci. Il nostro, insofferente alle critiche come pochi altri leader, oltre a non far uscire alcun partito dalla RAI, tanto meno il PD di cui all’epoca era segretario, non si stracciò certo le vesti di fronte alla scelta di Giovanni Floris di abbandonare la prima serata del martedì di Raitre per accasarsi a La7, trasformando “Ballarò” in “Di Martedì” e andando a colmare un vuoto nell’emittente di Urbano Cairo. Ancora più burrascosi i suoi rapporti con Massimo Giannini, scelto dall’allora direttore di Raitre Andrea Vianello per sostituire un volto storico come Floris. Fra il 2014 e il 2016 furono innumerevoli gli attacchi dei renziani, su tutti il membro della Vigilanza Michele Anzaldi, all’indirizzo di Giannini, finché, alla vigilia del referendum costituzionale del 4 dicembre, i vertici dell’azienda tentarono l’azzardo di puntare su Gianluca Semprini (fortemente voluto dall’allora direttrice di Raitre Daria Bignardi), volto noto di Sky Tg24, per dar vita a “Politics – Tutto è politica”, un programma che, secondo i maligni, serviva solo a spingere le ragioni del SÌ in vista del voto del 4 dicembre. Non a caso, la trasmissione ebbe vita breve, chiudendo i battenti per via dei bassi ascolti il 13 dicembre dello stesso anno.
A fare la parte del leone, nella RAI renziana, furono Antonio Campo Dall’Orto, già dominus di MTV, nominato amministratore delegato con lo scopo di svecchiare il servizio pubblico e renderlo più “cool”, e Monica Maggioni, nominata presidente nell’estate del 2015 su proposta di Paolo Gentiloni, ex ministro delle Telecomunicazioni nel secondo governo Prodi, a quei tempi ministro degli Esteri ma, soprattutto, plenipotenziario del renzismo. Oltre a loro, si segnalano le personalità di Mario Orfeo, direttore del Tg1, dalle malelingue ribattezzato “PD1” (nomina che, a dire il vero, risale al 2012, governo Monti, e venne catalogata allora come scelta d’area centrista), che nel 2017 arrivò addirittura a sostituire Campo Dall’Orto al timone dell’azienda, e Carlo Verdelli, scelto dallo stesso Campo Dall’Orto e nominato dal Consiglio d’Amministrazione a ricoprire il ruolo di Direttore editoriale per l’Offerta informativa, il quale volle al suo fianco uno dei migliori dirigenti RAI rimasti, ossia il già menzionato Mazzetti.
Un bilancio della RAI renziana? Negativo. Non tanto per la qualità dei programmi, in discesa già da tempo e non eccessivamente peggiorata da falchi e colombe del fu “Rottamatore”, quanto per l’attitudine del nostro a verticalizzare ogni aspetto della società: un capo e dei sottoposti. Così nella RAI, così nella scuola, così ovunque. Avendo trasformato il referendum costituzionale in una sorta di plebiscito, ottenne il risultato che ben conosciamo. E Verdelli, direttore e persona di raro spessore morale, avrebbe raccontato in seguito la sua esperienza a viale Mazzini in un sapido libretto intitolato “Roma non perdona”, prendendo sostanzialmente le distanze da una stagione nella quale era stato sì un protagonista ma senza mai sentirsi a suo agio, anche per via delle pressanti richieste dei consiglieri d’amministrazione al suo indirizzo, i quali tuttavia, al pari dei partiti che li avevano nominati, rimasero fuori dalla porta della Direzione editoriale.
In conclusione, se oggi, a proposito del muskismo imperante, parliamo di “tecnodestra”, possiamo sostenere, scherzosamente, che il renzismo abbia rappresentato una sorta di “tecnosinistra”, molto attenta a non disturbare i manovratori e poco o nulla interessata alle esigenze delle persone comuni, le quali, quando sono state chiamate a esprimersi alle urne, sia nel 2016 che nel 2018, hanno bocciato questo modello politico in via definitiva.
(2-continua)
