Intervista a Marco Bertozzi
Interventi di Alina Marazzi e Luca Ricciardi
Tra il 27 maggio e l’1 giugno, il quartiere di Trastevere e Roma verranno festosamente invasi da un festival che invita a “praticare gentilezza a casaccio e atti di bellezza privi di senso”, con estrema sensatezza, in quest’epoca nostra dilaniata da orrori. Il riuso creativo delle immagini di repertorio, in Unarchive-Found Footage Fest rivolge lo sguardo al senso profondo e imprescindibile della Storia e ri-utilizza il materiale audiovisivo verso una dimensione fisica, estetica, ecologica, in linea con la sperimentazione dell’arte contemporanea mondiale. Questo vitalissimo festival punta lo sguardo verso un futuro di azione collettiva e lucida ricerca immaginifica.
Unarchive è alla sua terza edizione e nasce in seno all’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD). I direttori artistici sono Marco Bertozzi e da Alina Marazzi, ideatore e direttore organizzativo è Luca Ricciardi. Il festival è in collaborazione con Archivio Luce, CSC – Cineteca Nazionale, Assessorato all’Agricoltura, Ambiente e Ciclo dei Rifiuti del Comune di Roma, con il riconoscimento del MiC – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, con il patrocinio dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Roma. Con il sostegno di Real Academia de España en Roma, Ambasciata Spagnola in Italia, American Academy in Roma, Delegazione del Québec a Roma, Istituto Polacco a Roma, Ambasciata del Portogallo a Roma, Camões – Instituto da cooperaçao e da língua Portugal.
Partner formativi: John Cabot University, Università IULM, NABA, Nuova Accademia di Belle Arti.
Qui il programma e i luoghi nei quali si svolge: https://unarchivefest.it/wp-content/uploads/2025/05/Programma_UFFF-2025.pdf?fbclid=IwY2xjawKf3RFleHRuA2FlbQIxMQABHsL50bOITMCsV4ol0bohOoAR67uMiOXxUHTBcccBw9G6-4wrz08Lxproy0nR_aem_gu2taXLOe5HbJyimrPWRoQ
L’intervista che segue al codirettore artistico di Unarchive, Marco Bertozzi, non racconta soltanto il senso di questo festival, ma vuole essere una mappa di orientamento per gli spettatori tra le diverse sezioni, panel, performance dal vivo e mostre d’arte che lo compongono. Inoltre, abbiamo raccolto una dichiarazione di Alina Marazzi, codirettrice artistica, e una di Luca Ricciardi, ideatore e direttore organizzativo del festival per AAMOD.
“D. Lei è tra i fondatori di Unarchive, un festival di cinema del tutto nuovo in Italia, sul riuso creativo dell’audiovisivo. L’ eccezionale affluenza di spettatori – giovani e meno giovani, esperti di cinema e non – durante le prime due edizioni, dimostra che questo festival apre lo sguardo verso un mondo d’immagini, suoni, immaginazione, oggetti che la collettività ha sete di scoprire. Vorrei chiederle, per prima cosa, perché avete costruito questo ampio progetto, che si arricchisce di anno in anno.
R: Unarchive nasce da un’esigenza molto sentita nella contemporaneità, un’esigenza che accomuna discipline diverse tra loro. Partiamo da quella ecologica: l’idea del “riuso”. Da questa base, ci si apre a infiniti spazi di attuazione: le pratiche del riuso sono legate all’ambiente, ovviamente, ma si amplificano e si aprono alle arti in generale. Dal design alla moda, dall’architettura al cinema, per l’appunto. Nei suoi termini più artistici e sperimentali, tale pratica nasce diversi decenni fa, quando le preoccupazioni ambientali non erano sentite come oggi. Il riuso, nel frattempo, è diventato un’esigenza etica e politica. Nell’ambito specifico, il principio dominante è che si può fare grande cinema anche non girando immagini ex novo. Inoltre, l’idea di materiale d’archivio si è espansa: non parliamo soltanto di materiale d’archivio custodito dalle cineteche del mondo, ma è diventato “archivio” anche il materiale girato: mi riferisco alle immagini fornite dalle telecamere di sorveglianza, il cinema amatoriale, il cinema industriale, solo per fare qualche esempio. Un altro motivo per il quale è nato Unarchive riguarda l’idea che le immagini continuino a pensare ben al di là delle nostre interpretazioni, grazie alle molteplici possibilità che hanno di essere riviste: colorarle, rallentarle, associarle a un nuovo “paesaggio sonoro” rispetto all’originale. Il riuso creativo ha la capacità di rendere le immagini qualcosa di completamente nuovo, di inaspettato, di diverso dalla loro origine ripresa. Tale idea di audiovisivo, inoltre, tocca categorie del sommerso, del non detto, del rimosso, del fantasmatico, capaci di scatenare nuovi immaginari, privatissimi ma anche pubblici. Il festival, dunque, nasce da un’esigenza politica, teorica, etica, ma anche da riflessioni che avevo cercato di esporre in Recyded Cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, un libro sul found footage che avevo scritto una quindicina di anni fa. Successivamente”, con l’AAMOD, organizzammo un convegno dal titolo: “Movimenti d’archivio. La straordinaria avventura del riuso cinematografico” al quale parteciparono studiosi come Pietro Montani, archivisti come Paolo Simoni, registi come Cecilia Mangini, Sara Fgaier o Davide Ferrario. Col tempo, Luca Ricciardi ha rilanciato queste idee, proponendo un festival vero e proprio dedicato al riuso creativo dell’audiovisivo. Organizzammo un’edizione zero, al Cinema Alcazar di Roma. Così è nato Unarchive, coinvolgendo luoghi quali l’Accademia di Spagna, la Casa delle Donne e, naturalmente, il cinema Intrastevere: vero e proprio cuore pulsante del festival. Quest’anno, poi, ci siamo allargati verso l’Orto Botanico, due gallerie d’arte, la Cabot University, lo spazio Scena: insomma, Trastevere è diventato il nostro “polo” del riuso creativo. Ovviamente il nucleo dal quale nasce Unarchive è l’AAMOD, che ha costruito ottime collaborazioni e partenariati con Istituto Luce, Cinecittà e diverse università, romane e non. Voglio ricordare proprio due sezioni del Festival capaci di coinvolgere i giovani: Riuso di classe, con produzioni realizzate all’interno di Università e scuole di cinema e la Giuria giovani, quest’anno guidata da Agostino Ferrente, che offre un ulteriore premio in denaro all’opera di found footage ritenuta più meritevole.
D: Le sezioni più rilevanti del Festival quali sono?
R: Innanzi tutto, il Concorso Internazionale di lungometraggi e cortometraggi, nel quale spaziamo dall’America Latina all’Estremo Oriente. Mi limito a segnalare opere come Billy, un film canadese di Lawrence Côté-Collins, sul controverso rapporto di un giovane e appassionato filmmaker con la regista stessa. Oppure Trains, di Maciej J. Drygas, con eccezionali immagini d’archivio che raccontano l’epopea costruttiva delle ferrovie, in diversi periodi storici e in diverse nazioni. O, ancora, Mes Fantômes arméniens, di Tamara Stepanyan, che realizza una carrellata sul cinema armeno, dalla diaspora in poi. Un film in cui la regista affronta sia la costituzione di un cinema nazionale armeno sia, in termini autobiografici, la sua complessa formazione in quanto cineasta e donna.
C’è poi la sezione Frontiere, con film che riflettono sulle frontiere, appunto, geografiche ed estetiche del found footage. Un’idea di ibridazione e di mescolanza che produce risultati estetici di grande interesse, mescolando visioni sperimentali di riuso e approcci diversi all’archivio. E qui penso a opere come Sempre, di Luciana Fina, Bye Bye Tiberas, di Lina Soualem o My Father’s Diaries, di Ado Hasanović.
Un’altra sezione importante riguarda i momenti dal vivo, in cui le immagini vengono “performate” grazie al fondamentale apporto di originali paesaggi sonori. Quest’anno abbiamo una punta di diamante: Darker è uno spettacolo che si terrà all’Auditorium Parco della Musica, il 31 maggio, con immagini di Bill Morrison (già premiato e giurato a Unarchive). In questa performance, 12 violini orchestrati da David Lang accompagneranno la sua scelta di immagini in via di decomposizione.
Una sezione che accompagna Unarchive dalla prima edizione è la Carte Blanche che diamo a Philippe-Alain Michaud, direttore del Dipartimento di Cinema Sperimentate del Centro Pompidou di Parigi. Quest’anno, Michaud ci propone due film di Ken Jacobs, un maestro del found footage: Star Spangled to Death, un film di 7 ore sul rimosso statunitense, che verrà proiettato in due momenti distinti, e Tom, Tom, the Piper’s son un’analitica rielaborazione di un film del cinema muto. Si tratta di una sezione importante, perché esprime la stretta vicinanza tra cinema e arte contemporanea. Unarchive non è un festival dedicato al classico documentario d’archivio, quello con la voce narrante che ti racconta ciò che le immagini stanno già mostrando, ma un momento di esplosione del potenziale di immagini che continuano a significare, nel forte apporto creativo innestato dal regista.
D: Siamo arrivati alla cosa che più mi interessa sottolineare di questo festival: Unarchive spiazza il pubblico italiano. E parlo non soltanto dei tanti studenti, giovani che affollano le proiezioni, ma anche degli addetti ai lavori, per così dire, delle persone che vivono di cinema. Mi spiego: questo festival ha caratteristiche didattiche senza voler essere didattico, dà informazioni sull’utilizzo creativo delle immagini di repertorio, ma con un’idea di continua innovazione. È un festival in movimento, privo di snobismo o pedanteria. Unarchive mantiene la forza di ciò che la Storia conserva attraverso le immagini, facendole vivere nel presente e proiettandole nel futuro. Insomma, è fortemente immaginifico e ha un’impronta futurista, nel senso più ampio dell’idea di Futurismo.
R: Unarchive parte dall’idea di intendere l’archivio non come luogo di semplice conservazione, ma come luogo irrequieto di progettazione, nell’idea che competenze diverse possano metter mano ai materiali di repertorio in una dimensione ribelle, sovversiva, fortemente creativa. Mi spiego: importantissimo l’aspetto filologico di festival come Le giornate del Cinema Muto di Pordenone, ma Unarchive è attratto da gesti artistici originali, assemblaggi non convenzionali, capaci di illuminare congiuntamente il passato, in cui le immagini vennero prodotte, e la nostra contemporaneità. Vorremmo portare in Italia ciò che l’arte visiva contemporanea sta esplorando da tempo, laddove un forte sapere teorico si coniuga a un brillante gesto artistico. Un’idea abbastanza lontana sia dal mondo accademico italiano, legato al privilegio di dimensioni teoriche o storiografiche, sia dal cinema mainstream, nell’iper produzione di commedie e film tradizionali, legati alla forte prevalenza dell’aspetto narrativo.
D: Non a caso ho utilizzato il termine “futurista”, intendendo con questo un festival che mostra il cinema come movimento. Qui, in riferimento alle sezioni e ai film dei quali ha fatto cenno poc’anzi, è evidente il gesto del montaggio creativo delle immagini di repertorio, che mette in piena luce la dinamicità del cinema, oltre la teoria, nelle immagini che scorrono.
R: Proprio così. Vorremmo mostrare e vivere la “frammentarietà” del cinema. Mi riferisco ad alcuni utilizzi delle immagini d’archivio: i film che mostriamo, in effetti, vogliono parlare della storia, del momento storico in cui sono stati generati, ma rivisti nella contemporaneità. Ecco, questa è la nostra idea centrale. E in quest’ottica, l’idea del “riuso” è dominante: pensi all’importanza degli home movies, al cinema amatoriale, che rivive nella nuova dimensione del found footage. Sì, questo festival raccoglie in sé gesti di ribaltamento delle immagini, gesti di rabbia, gesti d’amore, ma che liberano nuovi immaginari.
Vorrei ricordare anche un’altra sezione del festival: Les archives dans les mains des cinéastes, una selezione di film di riuso della Cinémathèque québécoise, con opere realizzate da cinque artisti canadesi sui materiali di un fondo appartenuto all’Unione Sovietica e ora depositato alla Cineteca di Montréal.
O, ancora, la sezione Best of Fest, nella quale presentiamo alcuni film che sono stati visti in altri Festival dedicati al riuso, da Lima a Porto, da Amsterdam agli Stati Uniti.
E non vorrei dimenticare la sezione Panorami italiani, con alcuni film, sia lunghi che corti, realizzati nell’ultimo anno, come Bestiari, Erbari, Lapidari, di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti o Prima della fine, Gli ultimi giorni di Enrico Berlinguer, di Samuele Rossi, già in cinquina nella sezione documentari per i David di Donatello.
Abbiamo poi alcune proiezioni speciali, come Jaffa – La meccanica dell’arancia (2009), del grande documentarista, quest’anno in giuria ad Unarchive, Eyal Sivan, nel quale emerge un’altra appropriazione attuata dal colonialismo sionista in Palestina; o il film di Michele Manzolini e Paolo Simoni sulla Liberazione italiana, vista attraverso film di famiglia: è un montaggio di immagini amatoriali che documentano quello straordinario momento storico del nostro Paese.
Quest’anno, poi, ci sono due nuovi Panel, ospitati all’orto botanico di Roma. Il primo è Animare gli archivi, curato da Giacomo Ravesi, nel quale viene messa in risalto la relazione, che negli anni si è fatta sempre più stretta, tra immagini di archivio e animazione. L’altro, diretto da Simone Arcagni, esperto di Intelligenza Artificiale, si concentra sulla domanda: che rapporto c’è, ci può essere, ci sarà, tra immagini d’archivio e intelligenza artificiale? In entrambi i casi si stratta di momenti in cui esperti del settore riflettono su temi rilevanti per il riuso delle immagini: momenti sempre accompagnati da proiezioni.
Oltre a ricordare Darker, il cineconcerto di Bill Morrison e David Lang all’Auditorium Parco della Musica, vorrei segnalare la performance realizzata da Cosimo Terlizzi e Luca Maria Baldini che riutilizzano immagini girate da Pier Paolo Pasolini durante lo sciopero dei netturbini a Roma, nei primi anni Settanta, e ne fanno una performance dinamica, fortemente evocativa.
Per concludere, segnalerei Unarchive expanded, in cui il festival si apre ad alcune gallerie d’arte di Trastevere, con un intervento di Virginia Eleuteri Serpieri su Roma, che parte dal suo film Amor, e alcuni momenti curatoriali seguiti da Caterina Borelli, sia in Vicolo Moroni, sia all’Accademia di Spagna.
D: Vorrei sapere perché avete deciso di fare una co-direzione di questo festival, lei e la bravissima regista italiana Alina Marazzi, e come procede sin qui.
R: Proposi a Luca Ricciardi di coinvolgere Alina Marazzi sia per la sua importante attività di regista, con opere fondamentali sul riuso delle immagini, sia perché mi piaceva l’idea di una co-direzione tra un uomo e una donna. Quell’anno avevo anche coinvolto la Marazzi in una docenza nell’Università in cui insegno, lo IUAV di Venezia, e la nostra collaborazione si era rivelata molto proficua e apprezzata dagli studenti. Mi sembra che la nostra co-direzione sia in grado di attivare conoscenze e mondi tra loro complementari, e spero che questo possa innestare ancora idee, energie e arricchimenti filmici importanti per Unarchive e, più in generale, per la cultura cinematografica italiana.
D: In tutto “l’apollineo” di un cinema italiano piuttosto quieto e sacrificato, in Unarchive c’è qualcosa di profondamente irrequieto, aperto, vario: qualcosa di “dioinisiaco”, oserei dire. Mi appare come un salto: mi appare come “l’uscita fuori di sé” che ci ha insegnato Ejsenststejn nei suoi scritti teorici e nei suoi film di montaggio: è come una continua trasformazione, da un’immagine all’altra, da uno stato all’altro, verso un’estasi creativa che unisce spettatori e autori. Ci sono sezioni diverse, performance, mostre…
R: Ha ragione: siamo sognanti, siamo aperti a gesti che liberino nuovi immaginari, territori del pensiero instabile, folle, visionario. Al di là della sala, che per noi rimane sacra, Alina e io amiamo un’idea di “cinema espanso”, ovvero la possibilità di mostrare le immagini nelle gallerie e nei musei, nelle biennali d’arte e negli spazi urbani. Forse perché partiamo dall’idea di archivio come irrequieto luogo di creazione, un antro che valorizza la dimensione vivente dei suoi tesori, nella coabitazione di materie ribelli. Dunque “archivio” come potente spazio progettuale, come luogo privilegiato per quelle pratiche capaci di tenere insieme consapevolezza teorica e rischio del gesto artistico. Uno scenario ricco di potenzialità che il Festival attraversa e stimola, con atti che privilegiano la dimensione vivente e relazionale delle immagini, nella costruzione di memorie e storie alternative. Se vuole, un frequentare l’entropia che ci circonda, il che ha a che fare con l’idea di vita indiscriminata, con artisti/registi che fuggono da narrazioni consolidate per offrirci connessioni ribelli della materia filmica, mescolamenti e sciabordii nati da foto-detriti, da immagini di sorveglianza, da antiche rovine o formati ridotti inammissibili al grande cinema. Scarti fisici che evocano marginalizzazioni culturali, corpi esposti, si, anche quelli di autrici e autori sempre più resistenti e capaci di sfuggire alla forma della scrittura classica per investire di nuove significazioni, ludiche e politiche, le loro magiche cine-danze”.
Conclusa l’intervista con Bertozzi, abbiamo chiesto alla codirettrice di Unarchive, Alina Marazzi, come viva la co-gestione del festival e cosa rappresenti, per lei, Unarchive:
“Con Marco Bertozzi c’è grande sintonia. Ci conosciamo da molto tempo, entrambi amiamo il cinema documentario di creazione ed entrambi, partendo da background diversi, pratichiamo e frequentiamo il cinema di found footage da anni. Grazie ai differenti profili delle nostre identità, coordiniamo bene questa gestione artistica, che è poi collegiale. Con Luca Ricciardi, così come con tutti coloro che rendono vivo Unarchive, si scorre in unico flusso di visioni. Nella costruzione delle varie edizioni, c’è una parte di riflessione prettamente analitica e teorica, che pratichiamo durante le sessioni di visione nella preselezione dei film e poi c’è una parte più istintiva, guidata dal piacere di guardare queste visioni e apprezzare questo tipo di cinema. Quando Marco mi ha coinvolto, sono stata molto contenta. Mi sento una privilegiata nel poter partecipare al processo di lavoro creativo per mettere assieme un programma da offrire al pubblico che è l’espressione di una visione del cinema. D’altra parte, nei miei film pratico da molti anni l’utilizzo delle immagini d’archivio. Il mio primo film, per esempio, Un’ora sola ti vorrei, è del 2002 e per realizzarlo ho lavorato su filmati della mia famiglia, i così detti home movies. Da lì è proseguito il mio percorso registico utilizzando filmati di repertorio: se non per tutta la durata del film, come in Vogliamo anche le rose, del 2007, nei lavori successivi ho comunque inserito anche solo parzialmente immagini d’archivio. Sono quindi attratta da sempre dalla pratica del riuso creativo d’immagini. La mia personale riflessione teorica sul cinema parte esattamente dalla pratica concreta del lavorare con questo tipo di materiale. Guardando poi i film che ci arrivano da tutte le parti del mondo per essere selezionati nel festival, mi rendo sempre più conto di quanto sia vivo e vitale questo modo di fare cinema, che poi è anche estremamente libero e si avvicina davvero alle pratiche artistiche, ma ha anche una forte tensione narrativa che vuole dar vita a un incontro profondo con lo spettatore. È un tipo di cinema che crea una relazione nuova, peculiare con il pubblico, perché pone delle vere riletture delle immagini del passato. Constato, ad ogni visione dei film durante il festival, che il pubblico è coinvolto nel dover elaborare una propria visione e interpretazione di diverse immagini che provengono dal passato, ma sono messe in una forma nuova, dentro la contemporaneità, in una prospettiva contemporanea del presente”.
Abbiamo, infine, chiesto a Luca Ricciardi, ideatore e direttore organizzativo di Unarchive per AAMOD, quale sia il senso di questo festival:
“UnArchive Found Footage Fest, nonostante la sua giovane età, è ormai riconosciuto come un appuntamento stabile e imprescindibile dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, che lo ha ideato e lo produce. Certamente per il sorprendente successo delle edizioni precedenti, animate da un pubblico giovane, attento e partecipe, ma anche per la comunità internazionale che si è andata formando attorno al festival. Artisti, studiosi, programmatori, archivisti, cinetecari… sono sempre più numerosi coloro che hanno trovato in questo evento un punto di riferimento. Il Festival continua a crescere e uno dei segnali più evidenti è l’ampliamento delle collaborazioni, che in questa terza edizione si sommano alle già numerose del passato. Ai luoghi ormai consolidati come il Cinema Intrastevere, il Live Alcazar, l’Accademia di Spagna e la Casa delle Donne, si aggiungono l’Orto botanico di Roma, la libreria Zalib, lo Spazio Scena, alcune gallerie – formali e informali – del quartiere, e, in via eccezionale, una location al di là del Tevere: l’Auditorium Parco della Musica. Cresce anche il numero dei partner, tra questi, ambasciate e istituti culturali esteri, istituzioni locali ed enti privati. Vale la pena sottolineare, accanto alla storica collaborazione con l’Archivio Luce, l’importante sostegno del CSC – Cineteca Nazionale, che da quest’anno sancisce una significativa convergenza tra le tre principali cineteche della Capitale. Una sinergia che conferma quanto sia strategico, per le istituzioni impegnate nella conservazione del patrimonio audiovisivo, sostenere un festival che ne promuove la conoscenza e la valorizzazione attraverso il riuso creativo. Per la comunità dell’AAMOD – e più in generale degli archivi e delle cineteche – tuttavia, non si tratta soltanto di creare un contenitore capace di mostrare le più importanti produzioni di riuso al mondo, di discuterne, di incontrarne gli autori, di far crescere una comunità di appassionati. Certo, il Festival è prima di tutto questo, una “giostra del found footage”, appunto. Alcuni potranno viverlo come una ruota panoramica, altri come un ottovolante, per altri ancora sarà come un giro sul tagadà… Per noi dell’Archivio – e degli archivi – è invece soprattutto una Casa degli Specchi, dove, entrando, ci scopriamo riflessi in tanti modi inaspettati: allungati, schiacciati, ingigantiti, frammentati, caleidoscopici… a volte davvero irriconoscibili. Un luogo nel quale perdersi e poi cercare di riconoscersi. E in questo perdersi e ritrovarsi, provare a capire cosa significhi essere un Archivio del presente e quale possa essere la sua funzione nella società e nella cultura contemporanee”.
