L’Anpi ha il compito, tra gli altri, di concorrere alla piena attuazione della Costituzione nata dalla Guerra di Liberazione. E’ per questo che l’Anpi ha aderito con convinzione e con il massimo impegno al Comitato per i referendum.
Mettiamo per un momento tra parentesi i contenuti specifici dei quesiti referendari, sui quali comunque sono state già dette in diverse sedi parole chiarissime ed esaurienti. Mi interessa in questo momento mettere in evidenza un elemento comune a tutti i cinque quesiti. Sono tutti diretti a ridurre diseguaglianze e discriminazioni per dare contenuto effettivo ai diritti fondamentali garantiti dai primi articoli della Costituzione. I primi quattro quesiti vogliono tutelare il diritto al lavoro, fondamento della Repubblica ma al tempo stesso della dignità delle persone indipendentemente dalla loro nazionalità, diritto violato dalla precarietà e dal potere arbitrario di licenziare, anche in modo ingiusto e illegale, senza effettive conseguenze economiche per il datore di lavoro scorretto e, quindi, senza effettiva tutela per chi subisce l’illegalità. Il quarto quesito vuole rendere effettivo il diritto alla vita e alla salute nei posti di lavoro, sia per i lavoratori che per le loro famiglie.
Voglio sottolineare anche che le diseguaglianze non colpiscono tutti nello stesso in modo. I più colpiti sono i giovani e le donne. Per mancanza di efficaci politiche istituzionali e normative il 16,1 % dei giovani, in età compresa tra i 15 e i 29 anni, non svolgono né un’attività lavorativa né seguono un percorso di istruzione o di formazione. Nel 2024 in 156 mila hanno lasciato l’Italia con un incremento del 36,5% rispetto all’anno precedente. Solo il 53,5 % di donne riesce a trovare un’occupazione, rispetto al 70,9 % di uomini, e quasi la metà delle nuove assunzioni negli ultimi due anni è a tempo parziale, in buona parte involontario. Non ci possiamo stupire, quindi, ma certamente ci dobbiamo indignare, se leggiamo che nel rapporto sulle diseguaglianze di genere nel mondo l’Italia è all’80° posto, al 111° in termini di partecipazione femminile al mercato del lavoro e al 95° per la parità di salario a parità di mansioni.
Il quesito sull’abbassamento da 10 a 5 anni del tempo di residenza legale in Italia necessario per ottenere la cittadinanza vuole semplicemente tornare all’originaria legge sulla cittadinanza del 1992 sulla cittadinanza. Gli altri requisiti (residenza legale in Italia, possesso fi un reddito sufficiente, assenza di precedenti penali, buona conoscenza della lingua italiana) non sono toccati. Quindi è un quesito diretto a ridurre le disuguaglianze tra le persone che vivono onestamente e che lavorano nel nostro Paese, indipendentemente dalla loro nazionalità. L’abbreviazione dei tempi di residenza, poi, non solo tutela i diritti degli stranieri ma anche, ovviamente, ne favorisce l’inclusione. Possiamo dire che un quesito contro il razzismo, l’esclusione, le paure, le diffidenze e le ossessioni identitarie.
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Sappiamo bene che la sorte di questi referendum, purtroppo, non si gioca sul merito dei quesiti ma sul quorum. La decisione della maggioranza di governo di dare indicazione per la non partecipazione è dettata dalla paura dell’esito della votazione ed è favorita dallo scandaloso silenzio di quella parte dell’informazione controllata dalla maggioranza stessa.
L’impegno prioritario di ogni democratico è allora quello di portare quante più persone possibile al voto. Il significato politico dei quesiti può servire a motivare coloro che ne condividono il merito, ma che hanno il dubbio che poi il voto per il sì non possa avere effetti concreti. Ma anche chi ha un orientamento culturale e politico opposto potrà essere convinto a partecipare sulla base di un’altra e decisiva ragione.
La partecipazione al voto nelle elezioni politiche ed amministrative è diminuita fino a raggiungere limiti allarmanti. Se posso essere molto schematico potrei indicare così queste ragioni: delusione per la mancata realizzazioni di promesse elettorali, per un verso o per l’altro, basate sulla fede in un modello di sviluppo che prevede una costante crescita economica individuale e collettiva, senza alcun controllo; crisi delle organizzazioni politiche generali; demonizzazione del concetto stesso di civile conflitto di idee e di proposte; chiusura dei luoghi fisici di formazione politica e culturale. Ragioni che si capiscono ma che non si possono condividere e che, anzi, debbono impegnare tutti i democratici a lavorare per superarle.
Però la votazione nei referendum è tutta un’altra cosa. Non si tratta di dare una delega generale a persone e organizzazioni politiche, soggette a una teorica verifica ogni cinque anni. Nel referendum chi ha in mano la scheda decide direttamente, in un modo o nell’altro, una singola questione che riguarda la concretezza della propria vita.
Voglio concludere affermando che questo voto referendario, anche per il contesto politico, nazionale e internazionale, che stiamo vivendo, assume la funzione di una nuova forma di resistenza agli attacchi ai diritti di eguaglianza e quindi alla democrazia. Parafrasando le parole di Calamandrei possiamo dire che i valori costituzionali sono come l’aria: ci si accorge di quanto valgono quando cominciano a mancare.
Ragione in più per continuare a dire con forza, a gridare: “Ora e sempre Resistenza”.
*Intervento alla manifestazione per i referendum del Comitato per i referendum del I municipio il 26 maggio 2025 in piazza Testaccio
