Presentato in anteprima al Festival di Berlino nel 2024, oltre che in numerosi festival nazionali e internazionali, vincitore di un Nastro d’Argento e in cinquina ai David di Donatello 2025, Il Cassetto segreto di Costanza Quatriglio conferma che il cinema è uno strumento di continua ricerca. Ricerca del tempo, dello spazio, della realtà, del ricordo che può e sa trovare una nuova dimensione nel presente. Quanto tempo ci vuole per elaborare la morte di un padre, chi è il padre, come sopravvive nella mente e nel corpo di una figlia in maniera liberata e felice, svincolato da polverose nostalgie? Queste domande personalissime, nel film, si mescolano alla necessità comune a tutti di appropriarsi di sé, della propria esistenza, emancipandosi da chiunque, nonostante la fatica che tale processo comporti. In sostanza, il sovvertimento dell’ordine costituito da chi ci ha preceduto, è la più alta forma di affrancamento. E questo è possibile non soltanto con un grande sforzo personale, ma soprattutto attraverso l’atto di “storicizzare” il reale e i sui accadimenti, anche quelli apparentemente accidentali. Il cassetto segreto, infatti, non si ferma a scrutare le interiorità collettive, perché parte dalle cronache del ’900. Giuseppe Quatriglio, il padre della regista, è stato un intellettuale profondamente siciliano eppure spalcato al mondo, che nella sua professione di critico, giornalista, fotografo ha raccontato luoghi e persone, momenti che riguardano la Storia di tutti. Ma in questo film, i piani di ciò che comunemente chiamiamo Storia, si mescolano e tra le grandi vicende del mondo, emerge ad ampie ondate quella di una figlia, certo, ma soprattutto di una regista che vive di vita propria, emancipata e curiosa, e usa il mezzo cinema, lo sfida, lo mette alla prova, cercando di coinvolgere sempre chi guarda in questo gioco, che è serio e, proprio per questo, è un bellissimo gioco.
Sinossi. Nel gennaio 2022, Costanza Quatriglio torna nella casa dov’è cresciuta, chiusa da tempo, e apre le porte ad archivisti e bibliotecari per donare alla Regione Siciliana l’archivio appartenuto al padre, Giuseppe Quatriglio, firma storica del Giornale di Sicilia e di altre importanti testate, scrittore, saggista e amico di intellettuali e artisti del ’900. Comincia così un viaggio attraverso fotografie, bobine 8mm, registrazioni sonore realizzate dal padre dagli anni ‘40 in poi in Europa e nel mondo, e le riprese effettuate dalla regista, tra il 2010 e il 2012, con lui quasi novantenne. Un cassetto da cui escono i ricordi di un padre e di una figlia, ma anche la voce di Carlo Levi, i ricordi di Jean Paul Sartre, la stretta amicizia con Leonardo Sciascia, le foto di Anna Magnani, Cary Grant e Ingrid Bergman, l’auto scatto mancato con Enrico Fermi, un disegno di Renato Guttuso, i pomeriggi con il poeta Ignazio Buttitta. E ancora, il terremoto del Belice e il muro di Berlino, la Parigi e l’America degli anni ’50.
Il film è prodotto da Indyca, Luce Cinecittà con Rai Cinema e distribuito dal Luce Cinecittà.
Di tutto questo abbiamo discusso con Costanza Quatriglio nell’intervista che segue.
Perché ha realizzato Il cassetto segreto e in che momento della vita si trovava?
Il film è sgorgato da sé, qualcuno ha detto, ed è vero. Quando ho deciso di donare alla Regione Siciliana l’archivio e la biblioteca che mio padre aveva nella casa in cui sono nata, mi sono ritrovata con le archiviste e i bibliotecari che lavoravano alla loro sistematizzazione. Filmare la realtà è il mio mestiere ed è stato naturale per me testimoniare con la videocamera questo enorme lavoro. Mentre ciò accadeva, mi sono resa conto che l’abitare lo spazio della mia casa da parte dei bibliotecari e delle archiviste aveva una funzione mediatrice tra me e quello spazio. Lo spazio in cui ero cresciuta si andava trasformando dentro e fuori di me giorno dopo giorno, momento per momento. Quel preciso spazio, che avevo cristallizzato nella mia memoria e che era arrivato al mio presente immutato, cambiava con lo spostamento dei libri, degli oggetti, delle carte; cambiavano la luce, le proporzioni tra gli ambienti, i pieni e i vuoti. Il presente in divenire era in ogni momento una prospettiva di futuro. In questa trasformazione emergevano tanti racconti che riguardavano la storia della Sicilia, la storia dell’Italia e anche del mondo. Nello scoprire infinite storie, mi rendevo anche conto che avevo tra le mani il potenziale di un film che si stava già facendo, senza che io quasi lo desiderassi. È quindi un film che aveva già dentro di sé il potenziale di parlare di un singolo giornalista (che era mio padre), e contemporaneamente parlava a tutti della nostra storia, della nostra cultura, di altre culture, attraverso le persone che mio padre aveva incontrato in giro per il mondo. A un certo punto, quindi, mentre filmavo, il film si è imposto da sé, come esigenza narrativa. Inoltre, lo stessa atto di narrare, in quello spazio, mi interrogava su come mettere dentro a questo film la mia presenza, il mio corpo. Anche questo aspetto è arrivato da sé, inaspettato: io stessa ero inevitabilmente parte concreta dell’archivio, della casa, di questa memoria fisica, corporea che, trasformandosi, si preparava a diventare qualcosa d’altro e quindi non potevo esimermi dall’esserci.
La sfida di entrare in profondità nel sottosuolo della memoria familiare e domestica e nelle cronache del mondo che suo padre ha raccolto e raccontato al mondo nello spazio di una vita, mi sembra un aspetto molto interessante. Come ha costruito questa intimità pubblica, direi per brevità?
L’intreccio tra la memoria privata e la funzione pubblica di quest’uomo, è stato un intreccio naturale. Per esempio, mi sono ritrovata bambina accanto a Leonardo Sciascia, al poeta Ignazio Buttitta; ho trovato tracce di me e dei miei interessi di cineasta nei reportages fotografici e negli articoli di mio padre riguardanti il terremoto del Belice del 1968; ho ravveduto nelle fotografie scattate in America negli anni ’50 quell’immaginario che fa parte della mia cultura del cinema americano in bianco e nero. Insomma, ho ritrovato parti di me (e di noi tutti) in gran parte dei ritrovati del “cassetto segreto” di mio padre. Così come ho constatato che questo film era iniziato molti anni prima, quando ho cominciato a filmare mio padre nella nostra casa quando lui aveva 90 anni e cercavo di farlo parlare (tra il 2010 e il 2012 ho girato alcuni filmati di mio padre), di fargli raccontare se stesso nel suo spazio pieno di libri, di carte, di strati di vita come ere geologiche. Mentre lo riprendevo, stavo già costruendo una memoria filmica di lui. Devo dire che essere una cineasta mi ha permesso dunque di unire, di mettere insieme tutti questi puntini della realtà, organizzandoli tra passato e presente, intimo e pubblico, nell’evoluzione del tempo e dello spazio.
Ecco, lei sperimenta il cinema del reale da sempre, tanto nel documentario quanto nel cinema di finzione. Nel caso di questo film, cerchiamo di capire meglio come ha organizzato tutta questa diversità.
Io penso che per questo film è accaduto qualcosa di simile a quanto faccio solitamente riprendendo la realtà, una realtà che non riguarda la mia vita personale, intendo. Organizzare il reale è possibile soltanto costruendo varchi narrativi. In questo caso, il varco narrativo non era soltanto un pensiero, un concetto, ma era anche qualcosa di fisico. Mi spiego attraverso un esempio concreto: lavorando nella biblioteca di mio padre, una libreria molto grande, che in passato aveva separato il suo studio dallo spazio del soggiorno di casa, è crollata, abbattendosi su una parete. Lo spazio che avevo sempre visto in un certo modo, dunque, in un attimo è cambiato completamente. Questo incidente dapprima è stato traumatico; ma per una persona abituata come me a cogliere nei fatti inaspettati del reale le possibilità combinatorie di narrazioni possibili, il crollo di quella libreria è stato per la costruzione del film un’occasione narrativa fondamentale. Quello spazio, dunque, poteva essere filmato in modo totalmente nuovo e diventare così, davanti alla macchina da presa, uno spazio nuovo, ora che si era trasformato sotto i miei occhi. È stato scritto da molti critici che questo film è un atto d’amore verso mio padre, non metto in dubbio questo, ma credo anche che sia un atto di appropriazione di uno spazio di libertà, di uno spazio di sovvertimento dell’ordine costituito, in senso lato. Intendo parlare di uno spazio di libertà del linguaggio, lo spazio liberato di un corpo, il mio, ma potrebbe essere quello di qualunque figlia, dentro lo spazio che fino a quel momento era stato lo spazio di un padre. La trasformazione attraverso il mio sguardo, ha comportato una concreta, fattiva elaborazione del lutto e, quindi, una rigenerazione, che mi piacerebbe fosse di tutti coloro i quali guardano il film.
Dunque, lei si riappropria di se stessa. Non intendo chiederle che messaggio vuole dare, piuttosto vorrei sapere cosa vuole dire, fuori da sé?
C’è in questo film una inevitabile forma di storicizzazione che prescinde persino da una volontà chiara di storicizzare. Credo, in generale, che esista una necessità di storicizzare collettiva e una necessità di storicizzare intima, personale. Come dico all’inizio del film, c’è un tempo “debito”, che è quel tempo in cui certe cose possono accadere: soltanto in quel momento e in quel punto della vita. Ed è qui che avvengono delle sorprese, delle casualità che possono capitare solo durante questo processo. Faccio un esempio. Il cassetto segreto è stato presentato in anteprima al Festiva di Berlino nel 2024, nella sala dello storico Delphi Film Palast. Ecco, il Delphi Palast si trova vicino al Savoy Hotel dove mio padre ha soggiornato nel 1949. Il racconto di quelle notti trascorse al Savoy Hotel ha preso posto ne Il cassetto segreto, così come le immagini scattate da lui durante quel viaggio. Tra quelle fotografie ce n’è una del crocevia che ho sempre pensato fosse stata scattata da una finestra dal Savoy; così all’indomani della presentazione del film al Delphi sono andata a visitare l’albergo (che tra l’altro era chiuso al pubblico) e ho scoperto che l’angolazione di quella foto del 1949 testimoniava che non era stata scattata dal Savoy ma dal luogo in cui oggi sorge il cinema in cui ho presentato in anteprima il film (!) Siamo dunque al livello di qualcosa di imponderabile. La necessità di storicizzare, dunque, si mescola con l’imponderabile, col caso (diamogli pure il nome che preferiamo). E questa è una delle tante cose che vorrei condividere con chi guarda Il cassetto segreto.
Riguardando questo film durante le proiezioni, nelle sale cinematografiche assieme agli spettatori, cosa prova?
Innanzi tutto, sento una profonda empatia in chi guarda, perché la memoria collettiva e la memoria privata si possono intrecciare e quando accade è molto bello. Inoltre, si conferma in me la convinzione che mi piace fare un certo tipo di cinema che rifletta sul gesto stesso di fare cinema. Parlo, cioè, di un cinema che, attraverso le storie, possa riflettere contemporaneamente sul mezzo, sul linguaggio cinematografico, sulle sfide che l’atto di filmare pone di fronte a ciascuno di noi.
L’importanza del cinema e il senso del tempo sono due aspetti fondamentali del film. Il tempo è estremamente dilatato. Ce lo racconta lei stessa con l’esempio del Delphi Palast di Berlino. Nel film si passa dalla realtà materiale, attuale, dello smantellamento della biblioteca e dell’archiviazione, al tempo della preveggenza del film nel riprendere suo padre novantenne in quello stesso spazio; ci sono poi tutte testimonianze, i repertori, le fotografie di suo padre professionista; e c’è il tempo della casa, dei ricordi personali, delle fotografie personali e familiari. Come gestisce, dentro di sé, questo portentoso gioco che è il cinema, col suo potere magico di contenere in sé tutti i luoghi e tutti i tempi che si vogliono e possono raccontare nel tempo del film? Qual è il suo senso del cinema?
Credo di avere un sentimento, più che un senso, del cinema: cinema e vita si possono confondere, per chi lo fa. Questo sentimento me lo porto dietro e dentro di me. Guardo sempre la mia vita come una possibilità di guardare una storia attraverso il mezzo e la possibilità di filmarla. Dirigendo poi il Centro Sperimentale di Cinematografia di Palermo, cerco di portare i ragazzi a riflettere sulle sorprendenti possibilità di organizzare il reale in percorsi drammaturgici.
Per concludere, le farò una domanda un po’scomoda. La maggior critica negativa fatta al film è che è un po’ lungo, che questa dispersione toglie compattezza al film. Come risponde?
È vero, sono consapevole del fatto che il film è lungo ed è stata però una scelta precisa, fatta con la montatrice e cara amica, la bravissima Letizia Caudullo, scomparsa prematuramente esattamente mentre lavoravamo al montaggio di questo film. Con Letizia, in una circostanza fortemente emotiva, abbiamo scelto di tenere dentro il film il tempo dell’elaborazione, che era un tempo evidentemente mio, un tempo di un pensiero che si costruisce facendolo. Questo non è un film a posteriori, ma è un film in fieri: si fa mentre si vive. C’è stata, quindi, da parte mia e di Letizia, la voglia di accettare questa sfida. È un film che sfida il tempo. Oggi, con la debita distanza che in quel momento non avevo, potrei anche tagliare qualche “tempo in più”, ma non lo farei, innanzi tutto perché il film testimonia il momento in cui è stato realizzato; le scelte fatte rispecchiano chi ero io in quel momento, mentre mi modificavo al pari della casa; e credo anche per il rispetto dovuto al lavoro fatto insieme a una grande professionista come Letizia Caudullo. D’altra parte, ripeto, questo film è il frutto di quel tempo lì.
C’è qualcosa che vuole dire, in conclusione?
Vorrei aggiungere che la narrazione del film ha scelto il tempo presente, anzi, un eterno presente: anche le immagini del passato, voglio dire, sono viste, vissute nel qui e ora dell’esperienza narrata. Quindi, per me, Il cassetto segreto è un film al presente.
