Papa Francesco ha avuto a cuore le sorti dell’Africa fino all’ultimo giorno di vita. Nel messaggio “Urbi et orbi” letto a Pasqua in piazza San Pietro ha ricordato (tra l’altro) le sofferenze delle popolazioni vittime di violenze e conflitti, soprattutto nella Repubblica Democratica del Congo, in Sudan e Sud Sudan, nel Sahel, Corno d’Africa e nella Regione dei Grandi Laghi.
Un’attenzione coerente con la sua visione di una Chiesa al servizio di poveri ed emarginati, capace di affrontare le diseguaglianze globali dando voce a chi non ne ha e concentrando la luce su coloro che vivono ai margini. Non a caso nel suo documento programmatico “Evangelii Gaudium” invitò la Chiesa alla “conversione missionaria”, finalizzando la propria azione all’annuncio della buona novella ad un mondo ferito e frantumato. Francesco è diventato così la voce dell’Africa denunciando l’imperialismo, il colonialismo, lo sfruttamento dei poveri, il capitalismo neoliberista e l’ingiustizia ecologica. Quando visitò il Kenya nel 2015, scelse di recarsi nelle baraccopoli di Nairobi per proclamare il vangelo della liberazione agli emarginati invitando i governi africani a garantire a tutti i cittadini l’accesso a terra, alloggio, lavoro. Sotto certi aspetti, Francesco ha incarnato il messaggio della decolonizzazione anche in parte ispirato dalla teologia della liberazione (sviluppatasi in America Latina su un filone marxista ma che in Argentina assunse il nome di “popolare” proprio per purificarla da tendenze ideologiche) in grado di legare insieme fede religiosa con la lotta politica per liberare la gente da ingiustizia e violenza strutturale.
Il Papa ha poi incoraggiato i cattolici africani ad affrontare senza timori vita pastorale e questioni sociali con un approccio diversificato secondo le varie e complesse realtà. Più volte ribadì che non era necessario che tutti i problemi della Chiesa fossero risolti dal Papa con un approccio dunque troppo romanocentrico. Una strategia che ha portato ad una maggiore trasparenza e responsabilità tra i vescovi africani, favorendo l’autonomia dei programmi educativi in università-scuole-seminari cattolici.
Tutto ciò ha aperto la strada alla creazione di un profondo legame con i giovani africani grazie anche a iniziative per rafforzarne l’autonomia, lo sviluppo personale e professionale. Francesco è stato così in grado di intercettare con la sua “cultura dell’incontro” (illustrata nel 2015 all’assemblea generale delle Nazioni Unite) lo spirito più profondo dell’etica comunitaria di Ubuntu (vocabolo frutto di una sintesi tra le lingue zulu e xhosa diffuse in Sudafrica) che indica i valori africani di comunità, partecipazione, inclusione e solidarietà. Insomma, una strada per realizzare un sogno che passa attraverso lo smantellamento delle strutture del neocolonialismo, la rimozione dell’ingiustizia e del ciclo di dipendenza che continua a caratterizzare le relazioni tra Africa e mondo ricco. Ma per realizzare il sogno è necessaria una nuova generazione di leaders in grado di anteporre gli interessi delle loro nazioni e dell’intero continente ad interessi egoistici, etnici e di parte. Francesco non tralasciava mai di ricordare che questo era il solco da seguire.
Va aggiunto che molti cattolici africani vorrebbero avere una maggiore rappresentanza in Vaticano preoccupati per le divisioni della Chiesa, alimentate da scontri culturali e ideologici di stampo prettamente occidentale che nulla hanno da spartire con il contesto continentale.
Il primo incontro con l’Africa è del novembre 2015. In agenda Kenya, Uganda mentre nella Repubblica Centrafricana papa Francesco fa un gesto che entra (come tanti altri) nella storia vaticana: l’apertura della Porta Santa del Giubileo della Misericordia nella cattedrale di Bangui, in anticipo sull’apertura ufficiale di Roma. La tappa a Bangui era stata sconsigliata con determinazione sia dai servizi di sicurezza italiani che dalle truppe dell’esercito francese dispiegate sul campo: troppo rischioso avventurarsi nelle strade della capitale dilaniata dalla guerra tra fazioni musulmane e cristiane. Ma Francesco “il testardo” non rinuncia a muoversi sulla papamobile con il più alto esponente religioso musulmano e la sua controparte cristiana visitando sia una chiesa che una moschea per diffondere un messaggio di pace.
In Egitto nel 2017 denuncia i pericoli del fondamentalismo religioso all’origine della violenza che è la negazione di ogni religione.
Nel marzo del 2019 è la volta del Marocco, dove ribadisce a re Mohammed VI ed a esponenti della maggioranza musulmana che la “fede non può essere imposta con la forza” e lancia un monito a difesa dei migranti, spesso in transito dal nord Africa: “Non si tratta solo di numeri, ma di volti, storie, sogni e speranze”.
Nel febbraio 2023 ritorna in Africa subsahariana. Nella Repubblica Democratica del Congo denuncia il saccheggio e lo sfruttamento delle risorse naturali da parte di potenze straniere e locali. Schiaffoni per leaders politici, multinazionali e comunità internazionale.
Poi visita il Sud Sudan (squassato da una lunga guerra civile) insieme all’arcivescovo di Canterbury ed al moderatore della Chiesa presbiteriana di Scozia. Un altro gesto di svolta, mai registrato in precedenza, di un concreto appello ecumenico alla riconciliazione di un paese profondamente diviso. Ma già 4 anni prima Papa Francesco si era inginocchiato in Vaticano davanti al presidente Salva Kiir ed al suo oppositore (e vicepresidente) Riek Machar baciando i loro piedi. Un gesto incredibile, mai visto prima: “Vi chiedo con il cuore, restate nella pace. Ve lo chiedo in ginocchio”. La ferrea umiltà francescana che diventa arma di pace.
Forse Bergoglio è stato il Papa più capace di penetrare nella “pancia” degli africani. Lo ha fatto con quella umiltà, dedizione, caparbietà e gioia di cui è capace un uomo del sud del mondo, anzi proveniente da quel “mondo alla fine del mondo”.
