“I dannati”, di Roberto Minervini, Ita-Bel., 2024

0 0

Con Jeremiah Knupp, René W. Solomon, Cuyler Ballenger.

Scandalosamente tenuto fuori dal concorso principale di Cannes, questo ennesimo capolavoro dell’immenso Roberto Minervini, ha vinto, ed era il minimo che gli si potesse tributare, il premio come miglior regia nella prestigiosa sezione “Un certain regard” della kermesse francese.

Autore da sempre a metà tra documentazione e finzione, capace, sulla scorta dell’insegnamento massimo di Flaherty, di raccontare storie attraverso personaggi-protagonisti reali, Minervini realizza, con quest’opera, il suo primo film di finzione “piena”. E lo fa ribaltando quanto fino ad oggi ci aveva felicemente regalato, con esiti altrettanto sommi. La messinscena di uno spaccato della guerra di Secessione americana serve al nostro autore per rappresentare “realisticamente” tutta la vasta gamma delle emozioni vissute da uomini costretti ad uccidere e ad essere uccisi solo perchè dentro un mondo assurdo che concepisce tutto ciò, e per questo meritevole di un perenne fuoricampo. Dunque, un film di finzione che diventa “documentazione” di stati d’animo colti dal regista nel momento stesso in cui si palesano sul set davanti alla cinepresa, che li scruta e li insegue fino a coglierne l’essenza più profonda, e per questo più metaforica e universale possibile, fuori da ogni tempo e spazio storico, con soltanto la natura a fare da spettatore, tanto potente quanto inerme, dinnanzi a cotanto scempio. I riferimenti citazionistici non possono non portare ad opere come “The lost patrol” di John Ford, 1934, “La pattuglia sperduta”, di Piero Nelli, 1953, “Il deserto dei tartari”, di Valerio Zurlini, 1976, “La sottile linea rossa”, di Terrence Malick, 1999, ma l’unicità del film di Minervini sta tutta nel comporre una serie di inquadrature-quadri, dai primissimi piani ai campi lunghi, insieme perfette e vibranti, come fossero tele di Van Gogh, Caravaggio o Goya, divenute magicamente frame di un tableau vivant realizzato con un trasporto amoroso verso i protagonisti tale da poter essere visto e “letto” come una preghiera per immagini, veicolata da sublimi piani sequenza, degni del migliore Bresson. Il senso dell’attesa, che si fonde perfettamente con il valore della parola dialogante, raramente così alto, è il motivo trainante della narrazione, lasciata aperta fino alla fine, e riempita di percezioni e sensazioni che solo la mano centellinante di un genio dell’immagine in movimento può riuscire a cogliere pienamente. Rossellini sarebbe stato fiero di questo suo prodigioso erede, capace di dare valore morale ad ogni fotogramma della sua magica e umana cinepresa.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21