“The palace”, di Roman Polanski, Ita, Svi, Pol, Fra, 2023

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Con Oliver Masucci, Mickey Rourke, Fanny Ardant, John Cleese

Simbolicamente ambientato in un hotel di lusso della Svizzera (lo Stato-Banca del mondo), alla vigilia del terzo millennio, abitato da ricconi veri o presunti (ma forse è la stessa cosa) che vi festeggiano il fatidico Capodanno della svolta, l’ultimo film di Roman Polanski è un’opera epocale per il cinema inteso come arte. Sì, perchè la volontà del grande regista franco-polacco è stata quella di realizzare un pastiche, un hellzapopping che potesse dare l’idea allo spettatore che quando una società è oramai arrivata al grado zero del marciume anche ciò che la rappresenta, il cinema in questo caso, è destinato a dare il peggio di sè, perchè il contenuto, per dirla con Godard, è dato dalla forma. Per questo “The palace” nel suo girare a vuoto risulta essere uno dei film più efficaci sulla fine del mondo, anzi sul suo suicidio, voluto, programmato e pervicacemente messo in atto. La globalizzazione, per esempio, uno degli imputati principali di questa catastrofe, è qui, ironicamente, rappresentata dalla famigliola ceca, ridotta sul lastrico da un altro fallimento epocale, il comunismo, che cerca, proprio in questo hotel, il nonno che la possa aiutare, tale Bill Crush, diventato miliardario, o presunto tale, negli States, anch’egli vittima maldestra e spocchiosa di una maledetta illusione chiamata Capitale. Ma, soprattutto, sono le facce, ad iniziare da quella di un irriconoscibile Mickey Rourke, dei tanti protagonisti di questo veglione antropologicamente horror e visivamente espressionista a farci rabbrividire. Sono facce sfatte, alterate, piegate e piagate da una discesa agli inferi dell’umano, offeso da una morale comune oramai asservita ai peggiori istinti di una ideologia, quella liberista, ammantata di libertà, ma che della stessa sta solo facendo brandelli a colpi di deliri mentali e fisici che non conoscono più confini. Persino il cagnolino di uno di questi “signori” alla fine si accoppierà con un pinguino gironzolante per l’albergo, a rappresentare e simboleggiare la fine di una società senza più nemmeno basi da dove ricominciare. Polanski sembra voler condensare in un’ora e mezzo, parodiandoli, capolavori maledetti e assoluti del cinema anni Settanta, come “La grande abbuffata”, di Marco Ferreri, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”, di Pierpaolo Pasolini, e il suo stesso geniale “Chinatown”. Ne risulta un terremoto filmico, un disordine visivo e contenutistico che più efficace non poteva essere. Dunque, un meta film quello di Polanski, che interviene a rendere esplicita la natura dell’arte, inevitabilmente legata a ciò che gli gira intorno, sempre conseguente nel suo essere preziosa interpretazione della realtà.


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