La Storia da indossare e il lusso del tempo ritrovato: il futuro della Memoria è adesso

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L’Italia è terra di moda da secoli e la sua ricca cultura tessile ha creato una vasta gamma di vestiti tipici che hanno contato molto nella sua storia. Dalle gonne svolazzanti al caratteristico pizzo, passando per il merletto veneziano, il Tartan sardo e la seta di Como, i tessuti e la sartoria italiana si distinguono per l’unicità dei materiali e delle tecniche di produzione. Iconici abiti sono nati dal genio dei grandi stilisti italiani, mentre i tessuti pregiati come il cachemire, la seta e il lino hanno catturato l’attenzione del resto del mondo. Eppure la loro origine è spesso antica quanto povera e nasce dalla commistione di culture e popoli.

Ogni vestito racconta la storia e la cultura di un popolo, dandoci un’idea della varietà del patrimonio italiano, caratterizzato da una grande diversità di capi unici legati a specifiche regioni o città. Esempi includono i cappelli di feltro alpini, le giacche napoletane con bottoni d’oro, i gonnellini sardi piegati chiamati saffiotto e i gilet veneziani in velluto. I vestiti tipici italiani rappresentano un patrimonio culturale e storico di grande valore per l’Italia. Dalle elegantissime gonnelle delle donne del Sud alle coloratissime feste delle contrade del Palio di Siena, ogni regione ha mantenuto con cura e passione le proprie tradizioni e lo stile unico dei propri abiti. E questo patrimonio continua a evolversi, adattandosi alle nuove tendenze senza mai perdere la sua identità. Indossare un vestito tipico italiano significa non solo apprezzare l’estetica della cultura italiana, ma anche rispettare e mettere in luce il lavoro artigianale e la creatività dei popoli che hanno creato questi capolavori tessili.

Una regione multiforme e geomorfologicamente complessa come l’Abruzzo, le cui province a fine Settecento erano considerate territori ai margini di un governo castrante sia da un punto di vista fiscale che feudale e versavano in uno stato di totale dipendenza dal forte potere statale, si era sempre delineata come “area di transizione” fortemente connotata da fenomeni quali la pastorizia, l’emigrazione, l’isolamento, il conservatorismo contadino, l’arretratezza; eppure, dalla storia di uno dei suoi abiti più celebri, quello nuziale della donna di Scanno, si riscopre terra di tesori nascosti, misteri esoterici di origine pagana, ricchezze raccolte in quelli che erano considerati esotici viaggi nel profondo Salento, durante i lunghi mesi invernali della transumanza. Molteplici interessi hanno mosso nel tempo la penna degli scrittori abruzzesi, in concomitanza con l’evoluzione storiografica e culturale italiana. Ma già a partire dalla prima metà del Settecento, emerge negli eruditi abruzzesi l’esigenza di estendere la propria ricerca al di là delle mura urbane, perseguendo una visione d’insieme che consenta di collocare il passato della propria città in un quadro storico-geografico più ampio e, accanto alle tradizionali storie dei borghi fanno, quindi, a poco a poco il loro ingresso, in questo filone della memorialistica, altre tipologie di scrittura, in primis quelle che possiamo definire storie di popoli. Protagoniste di questi testi sono, soprattutto, le donne che in Abruzzo sono fulcro dei focolari ma anche e soprattutto forza produttiva; donne che tramandano ma anche donne capaci di rovesciare stereotipi sociali che le avrebbero volute fragili e sottomesse. Questo aspetto è plasticamente eternato nel costume muliebre di Scanno, enclave di cultura matriarcale del nostro centrosud e borgo di raro incanto, esaltato dallo sguardo di grandi maestri della fotografia come Henri Cartier Bresson e Hilde Lots Bauer – di cui una mostra capitolina in questi giorni espone scatti delle donne in abito tradizionale scannese – e artisti indiscussi come Maurits Cornelis Escher che a Palazzo Bonaparte ammiriamo in questa stagione anche con una litografia dedicata a un celebre scorcio delle stradine in pietra di Scanno. Così, se è vero che occorre restare legati alla propria identità, è fondamentale però anche uscire dai propri confini interiori e rivolgersi all’altro, all’esterno, all’ignoto, come ha fatto la donna di Scanno, per la rima volta “transumante” a Roma: per questo il suggestivo convegno organizzato con il patrocinio di Roma Capitale in una gremita sala della Protomoteca in Campidoglio ha attirato studiosi e curiosi della storia del costume, in particolare ora che la fondazione F.A.S.T.I. presieduta da Maria Pia Silla ha intrapreso il percorso per il riconoscimento Unesco di un gioiello di storia e cultura come l’antico abito nuziale. Tanti gli interventi di esperti e appassionati della materia, dal sociologo Paolo De Nardis all’antropologa Gioia Longo, dal medico e cultore del costume Guglielmo Ardito al linguista Francesco Sabatini, uno degli artefici del riconoscimento UNESCO della Perdonanza celestiniana dell’Aquila.

Fondamentale in questo iter verso il riconoscimento a patrimonio immateriale dell’umanità dell’abito scannese è l’aspetto dell’ innovazione che la stilista abruzzese Liliana Spacone sta portando avanti, reinventando l’abito in versione contemporanea, attraverso un lavoro di ricerca e di sperimentazione: mantenendo gli elementi legati alla tradizione, come il caratteristico copricapo a fez con trecce, le maniche a sbuffo, la gonna a pieghe e il grembiule ricamato, ha iniziato a realizzarli con tessuti moderni come il lurex, il pizzo macramè e il denim, collegando il passato al presente lungo un virtuale filo d’oro della Memoria. Perché, come ha suggellato con le sue parole l’antropologo Ernesto di Renzo, “il costume non è solo qualcosa che serve ma anche e soprattutto qualcosa che racconta: un oggetto di riconoscimento per tutte e tutti, icona e sineddoche di abruzzesità”.


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