Un gennaio rivoluzionario

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Gennaio è un mese che, apparentemente, non si presta alle rivoluzioni. Ce lo siamo sempre immaginato, infatti, come un momento placido, con la neve che cade davanti ai nostri occhi, il freddo, le persone imbacuccate e la natura in letargo. Eppure, proprio gennaio ha saputo produrre, storicamente, momenti storici straordinari, che non esiteremmo a definire rivoluzionari. Basti pensare a due indimenticabili moti di ribellione avvenuti, in epoche diverse, nel Centro-America: l’ingresso della milizia castrista all’Avana, il 1° gennaio del ’59, al termine della lotta vittoriosa contro il regime di Fulgencio Batista, e il miracolo del Subcomandante Marcos in Chiapas, in contrasto con il liberismo arrembante che andava affermandosi ovunque nel mondo. Chiunque, almeno da ragazzo, ha sognato di vivere e raccontare storie del genere. Del resto, una parte del nostro immaginario si è formata leggendo i miti della letteratura latinoamericana, le esaltazioni della Sierra Lacandona e le speranze affidate a gruppi di ribelli che hanno anteposto gli ideali alla convenienza, arrivando talvolta a sacrificare la propria stessa vita pur di inseguire un ideale di libertà e di regalare alla propria gente un orizzonte di pace e di uguaglianza. Non tutto di quei movimenti ci ha convinto, non tutto è stato esaltante, specie col passare degli anni e il venir meno della tensione morale degli esordi; fatto sta che figure come quella di Fidel Castro, Ernesto Guevara e del già citato Subcomandante Marcos costituiscono, comunque, dei punti di riferimento, degli spartiacque etici e generazionali, il prima e il dopo delle nostre vite, all’insegna di un’altra idea di umanità e di mondo di cui si avverte sempre più il bisogno.
Ci teniamo anche a dire che non bisogna commettere l’errore di osservare queste vicende con l’animo di europei, dall’alto delle nostre certezze, delle nostre garanzie economiche e del nostro benessere che, alle volte, sfocia nell’opulenza e nell’ostentazione della ricchezza. La rivolta del Sud del mondo contro il capitalismo predatorio, difatti, è un tema di estrema attualità, da non banalizzare, a meno che non pensiamo davvero che tutto ciò che sta accadendo oggi in questo martoriato pianeta venga dal nulla, anziché essere figlio di un conflitto pluridecennale nel quale noi occidentali ci siamo macchiati di crimini orrendi, a cominciare dallo sfruttamento di persone, paesaggi e risorse naturali, al fine di esercitare un dominio che ora ci si sta rivoltando pericolosamente contro. Non comprendere l’utopia castrista e quella zapatista, ergersi a giudici e vergare sentenze disinformate e unilaterali è, oltretutto, il miglior modo per spingere “i dannati della Terra”, per citare un celebre libro di Fanon, fra le braccia dei nuovi despoti che hanno come principale obiettivo la distruzione dell’Occidente. Il guaio è che siamo noi i primi ad autodistruggerci, con la nostra arroganza, la nostra crudeltà, la nostra incapacità di comprendere la complessità di un mondo in preda alla barbarie e la nostra sottovalutazione sia della policrisi che affligge l’umanità sia della nuova realtà multicentrica di un pianeta che non accetta più gli obsoleti equilibri della Guerra fredda. Non stiamo capendo, insomma, quanto siano ormai insostenibili le logiche di Jalta, già vetuste negli anni Settanta a dire il vero, e di quanta saggezza ci sarebbe bisogno per evitare nuove guerre che, al contrario, sembrano essere all’ordine del giorno.
In tanta malora, avvertiamo sempre di più la mancanza di due grandi uomini, diversissimi fra loro ma accomunati dalla stessa passione civile. Parliamo di Norberto Bobbio e Fabrizio De André. Bobbio, torinese doc, personalità moderata, simbolo dell’azionismo e fedele custode dei valori costituzionali, fu tra i primi a spiegare ai presunti vincitori della Guerra fredda che la sconfitta del comunismo storico non avrebbe eliminato, ma anzi rafforzato, le ragioni per cui il modello comunista si era affermato nel corso dei decenni. Fu chiarissimo nel denunciare le condizioni di sfruttamento e alienazione degli esseri umani e nel ribadire che la battaglia contro le disuguaglianze dovesse essere patrimonio comune di tutte le forze politiche. Naturalmente, seguendo i dettami del Washington Consensus e dell’ideologia liberista dilagante, è accaduto l’opposto, con le conseguenze che vediamo ogni giorno. Vent’anni senza questo pensatore straordinario e ci sentiamo orfani: delle sue idee, delle sue intuizioni e, più che mai, delle sue denunce, prima fra tutte quella, attualissima, contro il rischio che si materializzi l’incubo atomico.
Venticinque anni fa, infine, ci lasciava Faber, il cantore degli ultimi, degli sconfitti, degli emarginati e delle periferie esistenziali che già allora la società benpensante si rifiutava di vedere e, ancor più, di accettare. Ha scritto testi immortali, volti a scardinare le logiche dell’abisso e a favorire l’incontro fra i popoli. Gli rendiamo omaggio con i versi conclusivi di “Inverno”, una delle sue canzoni più significative: “Ma tu che stai perché rimani? / Un altro inverno tornerà domani / cadrà la neve a consolare i campi / cadrà altra neve sui camposanti”. È un ritratto perfetto della desolazione attuale, purtroppo profetico e straordinariamente in sintonia con la realtà che stiamo vivendo.

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