Tre proiettili calibro 22. Tanti ne bastarono per uccidere un grande giornalista: Beppe Alfano. L’8 gennaio di 31 anni fa

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Stasera vorrei raccontarvi qualcosa di lui.
Non si può ricordare Beppe Alfano, senza partire da quel coacervo di interessi che è Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Un posto in cui sono stati fatti patti inconfessabili tra mafia e massoneria deviata che si protraggono anche oggi.
Basti pensare alla presenza di Rosario Pio Cattafi (condannato definitivamente pochi giorni fa) o alle parole della figlia Sonia sugli “innumerevoli depistaggi che sono stati adoperati da Olindo Canali (il pm al quale Alfano avrebbe rivelato di sapere della latitanza di Nitto Santapaola, ndr) il quale chiaramente non ha agito da solo, ma con la complicità di apparati istituzionali deviati con cui lui era in contatto”.
Alla morte di Beppe Alfano, infatti, seguì un lungo processo, e tantissimo fango per lui e per i figli (Sonia, in particolare – con lui in foto).
Perché oltre alla morte, Beppe Alfano doveva essere infangato.
Il boss Giuseppe Gullotti è stato condannato (all’ergastolo) per aver organizzato l’omicidio. Oltre a lui, è stato condannato quale killer, Antonino Merlino, la cui partecipazione al delitto è oggi fortemente in dubbio alla luce delle dichiarazioni di Carmelo D’Amico e di altri collaboratori di giustizia, che hanno indicato un esecutore materiale del delitto diverso. Misteri su misteri come quelli che riguardano i mandanti, totalmente ignoti per la Giustizia, non per chi vorrà leggere il mio libro “Traditori” (nel quale ripercorro le sue inchieste giornalistiche e soprattutto le sue scoperte).

Beppe Alfano, il giornalista che aveva capito tutto. Noi gli dobbiamo quantomeno la verità sulle trame che ne hanno deciso la morte. A lui ed ai suoi familiari, a cui va il nostro abbraccio e la nostra vicinanza.


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