Il Bandecchi che è in noi

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A trent’anni dalla fatidica “discesa in campo” dell’Uomo di Arcore, sinceramente troppo celebrata in questi giorni, con sconti sulla biografia del personaggio che non rendono onore alla verità, alla natura e all’operato del soggetto in questione, un suo degno epigono si affaccia sulla scena. Il paragone è probabilmente eccessivo; fatto sta che il sindaco di Terni, Stefano Bandecchi, reso celebre da alcune trasmissioni televisive e talmente innamorato del suo ruolo da schiacciasassi da averne fatto una professione, ieri si è lasciato andare a uno show che preferiamo qui non riportare. Avrà anche una grande passione e il massimo rispetto per le donne, come sostiene egli stesso in un’intervista rilasciata oggi a Repubblica, ma diciamo, con un eufemismo, che in consiglio comunale si è espresso piuttosto male.
Al che, ci torna in mente una citazione del cantautore Gian Piero Alloisio: “Io non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Neanch’io, a dire il vero, temo Bandecchi in sé: se lo son votato i ternani e se lo tengano, magari con l’auspicio che, prima o poi, cambino idea. Temo molto, invece, il Bandecchi che alligna in tutti noi. E se uso solo il maschile è perché, stavolta, mi rivolgo alla mia tribù d’appartenenza. L’idea che il politicamente corretto sia una palla al piede e che un linguaggio spinto renda simpatici, infatti, oltre a essere un’eredità del berlusconismo, è anche una convinzione assai diffusa nell’universo maschile, annidata in luoghi impensabili, nella mente di personaggi apparentemente irreprensibili e nel modo di ragionare di soggetti con i quali noi stessi andremmo, o siamo andati, volentieri a cena. Confesso che io stesso, talvolta, ho “bandeccato”: magari in privato, ma mi è capitato, e chiedo sinceramente scusa. Queste riflessioni, lungi dal costituire un alibi, dovrebbero al contrario indurci a ragionare su cosa siamo e su cosa vorremmo essere, mettendo al bando il moralismo e l’ipocrisia che finiscono, irrimediabilmente, col rendere simpatici persino coloro che rivendicano, come il tizio in questione, un eloquio che se risulta fastidioso lontano dai riflettori, in un contesto istituzionale proprio non è ammissibile. Dovremmo domandarci, in poche parole, quale concezione abbiamo della donna e se la consideriamo un oggetto da trastullo o una persona, con i suoi diritti, la sua dignità e la sua sacrosanta libertà di vestirsi come meglio crede. E dovremmo, guardandoci allo specchio, ammettere con sincerità che le cose che ha detto ieri il sindaco di Terni, almeno una volta, le abbiamo pensate tutti. Qui sta il problema: nella nostra cultura, nel nostro modo di ragionare, nel nostro inconscio, nel fatto di considerare normale ciò che normale non è, nella progressiva berlusconizzazione di un Paese un tempo faro della cultura occidentale ed europea e oggi ridotto a una macchietta e nel ritenere un povero sfigato chi non si unisce al coro o si pente di averlo fatto in passato.
Posto che nessuno possa scagliare la prima pietra, dovremmo dunque assumerci un impegno: cambiare, smettere di essere ciò che siamo stati fino a oggi e coltivare un pensiero autenticamente femminista, che renderebbe migliore la società nel suo insieme, favorendo i rapporti umani e incoraggiando le donne a fidarsi di noi, senza temere di poter subire conseguenze sgradevoli.
Quanto all’eroe del giorno, gli abbiamo dedicato fin troppo spazio. Ci auguriamo che i salotti televisivi trovino presto una nuova attrazione.

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