“Di vita non si muore”: una biografia generazionale 

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È uscito in questi giorni “Di vita non si muore”, un film di Claudia Cipriani dedicato alla vita di Carlo Giuliani. È un’opera singolare, intensa, rivelatrice, specie se si considera che ci svela degli aspetti di Carlo che, finora, conoscevano solo i suoi familiari e i suoi amici più cari. Per tutti gli altri, me compreso, prima di vedere il film di Claudia, Carlo era solo il ragazzo con l’estintore in mano che rimane vittima della barbarie repressiva in piazza Alimonda. Non un ragazzo con un cuore, dei sogni, dei pensieri, delle speranze e una complessità che merita di essere scoperta e compresa, dunque, ma un’immagine drammatica, un simbolo, diremmo quasi un icona: tutto ciò che non avrebbe mai voluto essere e purtroppo, invece, da quel giorno è diventato.
Lo stesso G8 di Genova, nel film, fa da cornice alla narrazione. È lo sfondo enorme di una vicenda umana e collettiva che riguarda chiunque, ma non il punto focale. Al centro della storia, come detto, c’è Carlo, con i suoi pregi e i suoi difetti, le sue passioni, i suoi sogni, i suoi errori, le sue contraddizioni, i suoi rapporti non sempre facili con la famiglia, lo smisurato amore per la sorella e la condivisione con un gruppo di amiche e amici che hanno segnato la sua breve ma vorticosa esistenza. C’è poi il professor Peppino Coscione, un rivoluzionario nel vero senso della parola, capace di tirar fuori il meglio da una personalità complessa ma ricca di potenzialità. E c’è Genova, soprattutto: la città dei vicoli e degli immigrati, dei soprusi e delle ingiustizie, della cultura underground e di quel vento di ribellione che spirava, all’epoca, in tutto l’Occidente, a cominciare da una generazione che si vedeva tradita proprio dalla sinistra cui, sia pur in forme diverse rispetto al passato, sentiva in qualche modo di appartenere. Protagoniste sono la scuola e l’università, il movimento zapatista in Chiapas, le battaglie contro lo strapotere delle multinazionali e la progressiva privatizzazione del sapere e della conoscenza, in una neanche troppo velata messa in stato d’accusa di chi,  non solo in Italia, si sarebbe dovuto opporre, per ragione costitutiva, a questo sfacelo e invece ne è stato non solo complice ma, a tratti, addirittura responsabile. Da qui anche una parte dei contrasti di Carlo con il padre Giuliano, ad esempio sul tema dirimente dei bombardamenti della NATO sulla ex Jugoslavia: una decisione inconcepibile per quel ventenne irrequieto che voleva battersi con tutto il cuore per la vita e una scelta, all’opposto, compiuta senza esitazioni né un minimo di pentimento dal governo D’Alema, lo stesso che nel dicembre del ’99 avrebbe indicato Genova come sede del G8.
Chi era, dunque, Carlo Giuliani? Un ragazzo fuori dagli schemi, un coltivatore di utopie, l’autore di testi che sarebbe bello leggere e far conoscere alle nuove generazioni, un visionario che auspicava un mondo senza porte, senza frontiere e senza confini, forse un giovane che è nato nel momento sbagliato: chissà cosa ne sarebbe stato, infatti, di lui se avesse fatto il Sessantotto, se fosse vissuto negli anni Settanta, se fosse stato protagonista di una stagione nella quale ancora non ci si era del tutto rassegnati all’immobilismo e non si era diventati quasi tutti stronzi o, comunque, incapaci di volgere lo sguardo oltre il proprio asfittico orizzonte!
Per assurdo, e qui sta la grandezza della regista, nel film non c’è dolore ma nostalgia: il rimpianto che attraversa questi due decenni per come eravamo e, purtroppo, non siamo più, per le nostre illusioni perdute, per la coscienza critica che ormai è venuta meno. Prima di piazza Alimonda, difatti, c’è un giovane uomo che cerca di trovare la sua strada, si confronta con i coetanei e non manca mai di esprimere i propri sentimenti, in particolare nei confronti della madre e della sorella, compiendo la propria piccola rivoluzione casalinga e portando una ventata di novità che si sarebbe presto trasformata in un vento capace di travolgere tutto e sconvolgere ogni cosa.
Se davvero si vuole comprendere l’anima di Carlo, insomma, bisogna andarla a cercare nei luoghi della sofferenza che aveva scelto di frequentare e di abbracciare, come un novello De André, cui di sicuro quest'”anima salva” sarebbe piaciuta da impazzire.
Piazza Alimonda arriva solo nel finale, quando tutto è ormai compiuto, come un destino tragico, come una storia più grande di tutte e tutti noi, come la biografia straziante di una generazione rimasta sull’asfalto, che da allora non si è più rialzata, che non ha più trovato la politica, che non è più riuscita neanche a partecipare a una lotta dalla quale si è sentita schiacciata. Quei ragazzi e quelle ragazze, ormai maturi, ricordano da vicino il Malaussene di Pennac, non a caso amatissimo da Carlo, il capro espiatorio per eccellenza,  sempre pronto a remare in direzione ostinata e contraria, mai domo ma purtroppo costretto ad arrendersi di fronte a una furia inumana che, nel caso specifico, non gli ha lasciato scampo.
Carlo non sarebbe mai voluto diventare un simbolo, lo ribadiamo, ma nessuna personalità descrive la sconfitta di quel movimento e la disfatta del nostro Paese meglio della sua.
Nel ’97, scriveva alla madre Haidi: “Passi silenziosi di animali sconosciuti / si ascoltano nel buio, senza far rumore; / gli alberi coi nidi adesso sono muti / e dormono leggeri, godendosi il calore / di tutta la giornata, e di amici conosciuti. / Non ricordo chi ha detto che di vita non si muore”.

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