I 50 anni di Psichiatria Democratica

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Autunno 1973: Franco Basaglia, Nico Casagrande, Franco di Cecco, Tullio Fragiacomo, Vieri Marzi, Gian Franco Minguzzi, Franca Ongaro Basaglia, Agostino Pirella, Piera Piatti, Michele Risso, Lucio Schittar e Antonio Slavich fondano, a Bologna, l’Associazione Psichiatria Democratica. Il movimento per la chiusura dei manicomi assume una dimensione nazionale che porterà alla “legge Basaglia” nel 1978. Decisiva fu l’alleanza con il giornalismo d’inchiesta, a partire da “I giardini di Abele” di Sergio Zavoli (1968) fino al “Gruppo di Ideazione e Produzione Cronaca” di Rai2 (1976)

Una testimonianza. Era l’estate del 1969. Con una copia sgualcita e imbrattata di note de L’istituzione negata, la Nikon a tracolla e il Nagra – il leggendario registratore in dotazione alla Rai – me ne andai di manicomio in manicomio per toccare con mano la brutalità dell’istituzione psichiatrica ma anche per conoscere quei medici che avevano deciso di negare il loro ruolo di “semplici carcerieri e tutori della tranquillità sociale”. Prima tappa, l’Ospedale Psichiatrico Leonardo Bianchi di Napoli dove mi fu impartita la prima lezione sul luogo comune secondo cui la violenza è connaturata alla malattia mentale. Me la diede un internato del reparto Alta Vigilanza che insieme a un centinaio di degenti se ne stava raggomitolato in un angolo del cortile per ripararsi dal sole, avvolto in un camicione di tela bianca.

Ero riuscito a strappare al direttore il permesso di fotografare, e magari intervistare i degenti ritenuti più pericolosi. Scortato da due prestanti infermieri, che a Napoli chiamano mastuggiorgi (da mastigofòros, uomo armato di flagello), iniziai a scendere i gradini d’accesso al cortile. La scena, desolante, era degna di un campo di concentramento tedesco. Sotto il sole cocente, i degenti, completamente nudi, andavano avanti e indietro accostati al muro di cinta alto più di dieci metri, contendendosi un risicato spicchio d’ombra. Abituati alla presenza dei camici bianchi degli infermieri, nessuno fece caso al nostro ingresso, tranne un uomo, né giovane né vecchio che, vedendomi, uscì dal suo torpore. Si alzò di scatto, e urlando come un ossesso, con il viso stravolto dalla rabbia, iniziò a correre verso di me. Nel giro di pochi secondi attraversò il cortile e mi si piantò di fronte, fissando minaccioso la macchina fotografica. Forse perché rassicurato dalla presenza dei mastuggiorgi o perché semplicemente sbalordito, mi venne spontaneo dirgli: “Ma che fai?”. E lui, accennando un sorriso e allargando le braccia, mi disse: “Faccio ‘o pazzo!” Con due sole parole, quell’uomo senza età aveva demolito, con la potenza dell’ironia, due secoli di pregiudizi, responsabili di mortificazioni disumane e violenze inaudite.

La seconda lezione me la diede Teresa, una giovane degente dell’Ospedale Psichiatrico di Perugia diretto da Ferruccio Giacanelli, un pioniere del movimento contro il manicomio. Vittima di una delusione amorosa, Teresa era stata internata, per curare la depressione in cui era sprofondata: “Sente le voci, sente le voci? mi chiedevano i medici. Io rispondevo, no; qualche volta sento le campane! Stavo male e pensarono bene di rinchiudermi. Sono ormai trascorsi quindici anni. Quando ero nervosa mi legavano, poi cominciarono con gli elettroshock: me ne fecero diciassette di seguito; poi un giorno mi chiamarono e mi dissero: signorina lei è schizofrenica. Devo essere sincera, ne fui contenta perché il manicomio mi aveva annientata e invece, da quel momento, almeno ero qualcuno!”

L’incontro memorabile lo ebbi a Venezia, il giorno di ferragosto. Da una cabina telefonica, con la sfrontatezza del ventenne, chiamo casa Basaglia. Risponde Franca, la moglie. Le chiedo d’incontrare Franco e per impietosirla le parlo del mio viaggio in Cinquecento da un manicomio all’altro. Richiesta accolta! In quella casa sul Canal Grande, sprofondato su una poltrona, Franco sembrava il Doge (in seguito capii che avevo visto giusto). Era demoralizzato e stanco. A Gorizia aveva iniziato a mettere “i matti a piedi libero” e da tempo cercavano ogni pretesto per farlo fuori. “Non me la sento di rilasciare interviste ma domani devo andare a Gorizia; andiamo insieme e ti faccio conoscere una persona davvero speciale che ha l’entusiasmo che a me manca in questo momento”.  Aveva ragione: Agostino Pirella, che di fatto dirigeva l’ospedale, aveva una statura intellettuale e una carica d’umanità straordinaria.

Da quel giorno diventammo amici, un’amicizia che si consolidò nel 1974 ad Arezzo dove realizzammo per la rubrica “Cronaca” di Rai 2, la prima di tre inchieste televisive sull’apertura del manicomio di cui era direttore (la seconda nel 1976, la terza nel 1981). Dietro l’alibi della follia fu un’opera collegiale. Vi presero parte i giovani psichiatri che Agostino stava formando – in particolare Gigi Attenasio, Paolo Serra, Vieri Marzi – e i degenti, quelli che ogni giorno si riunivano in assemblea per discutere della gestione dell’ospedale e del loro futuro. Personaggi leggendari come il Maestro Spadi e Vasco Angeli.

Agostino aveva spalancato il cancello dell’Ospedale psichiatrico e i pazienti che se la sentivano (molti lungodegenti avevano paura) andavano a passeggio per la città o al vicino supermercato. La popolazione era divisa: chi accoglieva i matti col sorriso e chi lanciava petizioni contro Pirella; chi voleva denunciarlo perché era costretto a tenere i bambini chiusi in casa e chi varcava il cancello per spirito di convivialità.

Per assestare un colpo ai pregiudizi preparammo un colpo di teatro. D’accordo con il sindaco, organizzammo un’assemblea cittadina per discutere dell’apertura dell’OP e, in prospettiva, della sua soppressione. Furono affissi i manifesti e una macchina del Comune girava per i quartieri annunciando l’assemblea che la Rai avrebbe ripreso integralmente. Sulla piazza Grande fu allestito un palco, furono disposte diverse centinaia di sedie, le telecamere, gli altoparlanti. La piazza era gremita, molte persone in piedi. Nelle prime file erano sedute le autorità, la giunta comunale, il vescovo, i rappresentanti dei partiti. L’assemblea ebbe inizio con un ringraziamento alle persone che avevano accolto il nostro invito a confrontarsi sul diritto dei malati mentali di vedersi riconosciuta la dignità e il rispetto dopo due secoli d’internamento. A sorpresa, annunciammo che nella piazza, seduti tra la gente, erano presenti decine di pazienti dell’ospedale psichiatrico. Trattenemmo il fiato. Dopo alcuni secondi d’imbarazzato silenzio qualcuno applaudì, mentre gli altri, i cittadini “normali”, adocchiavano preoccupati il vicino di sedia per capire se fosse o no un “pazzo”. Ma rimasero nel dubbio perché quei pazzi non indossavano più il camicione di tela e la camicia di forza: per l’occasione avevano messo il vestito buono.

Viva Psichiatria Democratica!


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