“Dietro la porta”, di Mario Brenta e Karine De Villers, Italia, 2023.

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Dopo il post-mondo raccontato nella “Trilogia dell’oggi” (“Il sorriso del gatto”, 2018, “Vanitas”, 2020, “Isole”, 2021), Mario Brenta e Karine De Villers decidono, in questa loro nuova opera, di immergersi e di immergerci nell’ancora-mondo, nonostante tutto. E per questo non è certo casuale l’ennesima simbolica presenza dei gatti, anche in un film che fa chiaramente da controcanto ai precedenti. La narrazione “resistenziale” dei due autori inizia con uno squarcio inquietante di cielo rosso, quasi fosse una friedrichiana creazione del mondo, che si apre all’improvviso su un liberatorio stormo di uccelli che si muovono sopra le Alpi. Qui, a Lunghin, incontriamo Nicola, che ci fa da guida verso una realtà tanto fisica quanto metafisica, premessa ad un film che ha come unico intento il racconto dell’Uomo e della Natura, unione imprescindibile oggi messa in pericolo da chi pensa di poterne fare a meno (il perimetro, insieme reale e metaforico, entro cui il film si apre e si chiude è determinato, non a caso, dal triangolo dei fiumi Po, Danubio e Reno). Gli incontri saranno tanti, a comporre un puzzle conoscitivo che tutto è tranne che documentazione nel senso classico del termine. Brenta e De Villers registrano con i loro occhi la realtà da salvare, tutelare, e la sbobinano davanti allo sguardo dello spettatore, instaurando con questo un rapporto empatico raro e necessario.  Angelo con il suo gregge e le sue poche povere cose vive ai margini della città, tra i rifiuti, come i sottoproletari accattoni dell’inascoltato e profetico Pasolini.

Ma i suoni della vita che i due autori lasciano in sottofondo, in una necessaria presa diretta, ci indicano verità assolute da salvare ad ogni costo. Sono il belare delle pecore e il latrare dei cani, ultimi segnali da un mondo pericolosamente in estinzione. Margherita, originaria dell’Est Europa, vive in una casa piena di piccole e antiche cose e il lento scorrere della sua esistenza, con il giardino da curare, è il paradigma di un altro possibile esserci. Introdotta dall’immagine poeticamente sospesa di due cavalli, che ricordano quelli immortalati dal genio di Tarkovskij in molte delle sue opere, entra in scena una coppia belga, Michèle e Pierre, lei iconografa religiosa (come l’Andrej Rublev tanto caro al già citato cineasta russo), lui intagliatore di pietre. I materiali con cui entrambi lavorano diventano simbolo di un rapporto pieno con la realtà, non mediato da virtualità che rompono ogni legame con l’esistente, con ciò che ci “appartiene”. All’interno di una tale tematica, è inevitabile, come in una sorta di “Otto e mezzo” dei nostri tempi, che anche i due autori si mettano in scena, in una confessione laica che rievoca momenti importanti della loro vita. Karine De Villers si muoverà così nella casa della sua infanzia belga, evocando momenti che l’hanno segnata per sempre, in un trionfo della memoria che diventa necessario per capire se stessi e ciò che ci circonda.

E a rendere ancora più commovente ed indimenticabile il suo ricordo, che segna uno dei momenti più alti di questo film, è il parallelismo mentale che ella attiva con la storia de “Il riccio nella nebbia”, il celebre film d’animazione del grande regista russo Jurij Norstejn. Il tutto a far percepire allo spettatore l’importanza del non perdersi in quell’eterno presente, per dirla con Vincenzo Consolo, che tutto annulla, fatto soltanto di mercificazione ed episodicità permanente. Di Mario Brenta colpisce il tono della voce, alla fine anche rotta dalla commozione, con cui racconta la propria esperienza di vita veneziana (a Venezia è nato). Sbalordisce la sua capacità di mettere insieme narrazione e visione, il saper passare dalla Laguna all’Africa (set di alcune sue opere) e viceversa, mettendo insieme tasselli di una vita vissuta all’insegna della ricerca e della scoperta, anche involontaria. Ma, soprattutto, sono, per chi lo ascolta, le memorie di un uomo che ha vissuto la propria vita all’insegna del rispetto per il mondo inteso come arcipelago di comunità (vedi i ricordi familiari, come anche quelli collegiali). E per chi conosce e ammira il suo cinema sono queste le radici da cui le immagini dei suoi film, da “Vermisat”, 1974, a “Maicol”, 1989, da “Barnabo delle montagne”, 1994, fino alla succitata “Trilogia”, hanno preso corpo, lasciando testimonianze preziose per chi verrà e vorrà. Anche l’incontro di Brenta e De Villers con Boris Lehman, il grande filmmaker svizzero, che per l’occasione legge un brano tratto da “Lo scarabeo d’oro” di Edgar Allan Poe, si muove nella stessa direzione di recupero di un senso comune che ci leghi alla nostra storia di uomini che tali devono restare. Commuove Franco Piavoli che legge il “De rerum natura” di Lucrezio Caro, lui che della natura al cinema è stato il massimo cantore, con quel “Pianeta azzurro” che torna anche in questo film, attraverso l’occhio dei due autori, capaci di raccontarci il mondo intimo di un artista dell’immagine che ha fatto del silenzio una bandiera, un vessillo da contrapporre al mondo gridato e assordante della nostra contemporaneità. Ovviamente, non poteva mancare Ermanno Olmi, presente attraverso qualche sequenza di quello splendido documentario, “Effetto Olmi”, 1983, realizzato da Mario Brenta sul set di “Camminacammina”.

Non è una citazione casuale, né tantomeno compiaciuta. Il grande maestro bergamasco è dentro il focus poetico di questo film, perché se è vero che anche il fare arte oggi sta diventando routine, produzione seriale, emozione da acquistare magari a buon prezzo, egli ci ricorda che l’ispirazione non può essere industriale, deve partire dalla parte più intima del nostro essere, che dubiterà sempre su quale sia la via giusta per raccontare l’essenza stessa dell’uomo, unica ragione dell’arte. La voce registrata di Billie Holiday che racconta della sua tragica giovinezza dà il suo contributo di ragione ed emozione a questo straordinario film, capace di mettere insieme testimonianza e poesia, desiderio di umano e rifiuto del falso come sistema di vita. La verità sta lì, proprio dietro la porta… Quello di Brenta e De Villers si conferma cinema allo stato puro, dove l’immagine emerge da sola a raccontarci verità che non hanno parola, talmente sono grandi, e la cui unica chance di comunicazione passa attraverso sguardi colti nel momento stesso in cui nascono. E’ come se i nostri due autori avessero messo insieme, in una sintesi forte ed estrema, tutto il cinema di Rossellini, Antonioni, Olmi e Pasolini, producendo qualcosa di inevitabilmente diverso, legato al sentire di chi si pone, da superstite, come testimone ultimo di un mondo che non si vuole arrendere alla logica dell’uomo ad una dimensione di marcusiana memoria.


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