Dare un futuro a queste piazze

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Per favore, non sbagliamo ancora. Non commettiamo lo stesso errore del 2011, quando per paura, per disperazione, per brama di potere, per mancanza di proposta politica e per mille altri motivi che è inutile star qui a elencare, anziché dare battaglia e chiedere a gran voce il ritorno alle urne al crepuscolo del berlusconismo, annegammo le speranze di mesi e mesi di mobilitazioni in un governicchio pastrocchiato, destroide e dannoso che ebbe come unica conseguenza quella di far esplodere la furia popolare, consegnando a Grillo un risultato incredibile.
In questo decennio di esecutivi tecnici e di larghe intese, con un colore politico ben preciso – quello dei poteri forti di ogni ordine e grado – si è persa la mia generazione. Non per niente, è da allora che non si vedeva una manifestazione della società civile delle proporzioni di quella odierna.
A vent’anni sognavamo di cambiare il mondo, a trenta ci ritroviamo in balia dello sconforto. Evitiamo che accada anche ai ventenni di oggi, a queste splendide ragazze e ragazzi che oggi manifestano in nome dei diritti, della dignità e della libertà delle donne, dopo essersi mobilitati per l’ambiente, contro il razzismo, contro ogni genere di sfruttamento e per il diritto allo studio e all’abitare. Evitiamo di offrire, ancora una volta, il volto di una politica sorda e cieca, incapace di ascoltare il cuore – perché qui si parla dell’anima, non delle viscere – del Paese. Trasformiamo,  al contrario, queste piazze in una proposta seria e credibile, ribadendo che in caso di crisi del governo, sempre più probabile, sia pur in tempi non brevissimi, il nostro unico orizzonte è il ritorno alle urne. Con questa destra, infatti, non si sarebbe mai dovuto iniziare a “dialogare”, anche perché non di dialogo si tratta ma di sottomissione. E se oggi non abbiamo l’educazione all’affettività e l’educazione sessuale nelle scuole, se i diritti civili non sono ancora riconosciuti, se le ingiustizie dilagano, se il lavoro è sempre più povero e privo di tutele, se intere generazioni fuggono all’estero in cerca di salari all’altezza dei loro studi e delle loro aspettative, se quasi nulla di ciò di cui avremmo bisogno, insomma, è stato realizzato, è perché abbiamo abbracciato una formula politicista, retrograda ed escludente, rinserrandoci nei palazzi mentre il potere vero si trasferiva sempre più altrove.
Anche negli anni Settanta si scendeva in piazza, altroché! Ma poi in Parlamento arrivavano il divorzio, lo Statuto dei lavoratori, gli asili nido targati Adriana Lodi, l’aborto, il Servizio Sanitario Nazionale firmato Tina Anselmi e la Legge Basaglia che prevedeva la chiusura dei manicomi. E non è un caso se le due riforme improntate alla cura e al progresso delle donne sono state realizzate da due donne: la comunista Lodi e la democristiana Anselmi. Era, quella, la stagione delle grandi proteste radicali e dei referendum che facevano compiere un passo avanti a un’Italia ancora codina, in cui un ex presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, nei comizi in cui si opponeva al divorzio parlava espressamente di uomini che, se fosse passato, sarebbero poi scappati con la “serva”. Oggi, per fortuna, nessun uomo politico, nemmeno i più impresentabili, potrebbe utilizzare un lessico simile, per quanto di atrocità se ne siano lette e se ne continuino a leggere a iosa. Il che significa che qualche passo avanti lo abbiamo compiuto, benché il cammino verso la piena parità di genere sia tuttora lungo e accidentato.
Tornando alle piazze femministe di oggi, alle ragazze che manifestano nelle scuole e negli atenei, al rumore che ha preso il posto del solito minuto di silenzio ipocrita e inutile, alle rivendicazioni sacrosante che sono emerse negli ultimi giorni e alla bellezza interiore della famiglia Cecchettin, un esempio dell’Italia che vorremmo, possiamo dire che questa ritrovata passione civile deve diventare permanente. Guai se dovesse arrestarsi! Guai se dovessimo affogarla in nuovi caravanserragli privi di confronto e caratterizzati unicamente dalla stagnazione delle idee e diremmo addirittura dalla loro repressione! Guai se il fronte progressista non dovesse cogliere l’occasione per offrire una casa e un luogo d’incontro alla meglio gioventù che, ancora una volta, ci ha regalato una straordinaria opportunità di maturazione e cambiamento!
Una riflessione conclusiva la meritano gli slogan e le parole d’ordine contemporanee. Nel 2001 si diceva: “Un altro mondo è possibile”. Dieci anni dopo: “Se non ora, quando?”. Adesso regna il timore. Sta a noi trasformarlo in speranza, consapevolezza, gioia di lottare insieme, in quella compagnitudine che è stata la colonna sonora di intere generazioni e che questo decennio del vuoto e dell’abisso ci ha fatto dimenticare.
Riscoprire la partecipazione, ritrovare la dimensione corporea dell’impegno, metterci la faccia e non solo il like, guardarsi negli occhi, conoscersi, prendersi per mano, sentirsi nuovamente un collettivo e una comunità in cammino: se esiste ancora un domani, va cercato qui. Non tutto è perduto. Giulia può e deve essere l’ultima. E suo padre e sua sorella che cercano il confronto e lanciano idee, invece di lasciarsi sopraffare da un dolore che non possiamo neanche immaginare, devono essere le nostre bussole, i fari di una società basata sulla condivisione anziché sul rancore.

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