Sinistra e CGIL in onore di Tronti e De Masi

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Oggi eravamo in piazza San Giovanni. C’eravamo come cittadine e cittadini, come giornalisti, come membri di Articolo 21 e come militanti di una sinistra diffusa che fatica a trovare una rappresentanza politica all’altezza.
C’eravamo in nome di due amici che non ci sono più: Mario Tronti e Domenico De Masi, due brutte perdite per il pensiero critico e di sinistra, considerando l’impegno che hanno proferito, per tutta la vita, in nome degli ultimi, dei deboli e della classe operaia.
C’eravamo in ricordo della nostra prima volta, il 23 marzo 2002 al Circo Massimo, quando a portare il nostro striscione c’erano personalità come Giuliano Montaldo, Sergio Lepri e Federico Orlando, di provenienze diverse ma accomunati dalla medesima passione per i diritti e le la Costituzione. C’eravamo per unire le diversità, per tenere insieme le differenze, per fare fronte comune, per batterci contro ogni ingiustizia e perché abbiamo sentito forte il richiamo di una battaglia che, come ha ricordato dal palco Maurizio Landini in un intervento destinato a restare nella storia della CGIL, non è di un partito o di un sindacato ma di un’intera comunità. È una battaglia di parte, certo, e la parte è quella di coloro che non accettano questa deriva, che non sopportano l’uso spregiudicato delle parole, che vorrebbero bandire determinati termini dal dibattito pubblico, che chiedono rispetto per i migranti in fuga da guerre e disperazione, che lottano in nome della sanità pubblica e di una scuola di qualità, che non ne possono più di discorsi divisivi e della cattiveria dilagante nel Paese ma, soprattutto, è la battaglia di chi oggi non ha una bandiera sotto cui sfilare ma si riconosce orgogliosamente in valori ben precisi.
C’eravamo per le ragioni che ha ben spiegato Camilla Piredda dell’UDU: contro l’ideologia del merito inteso come clava da brandire contro i più deboli, contro la bocciatura utilizzata per cacciare dalle classi i più fragili, contro l’incubo del voto, assurto a dogma per umiliare chi rimane indietro, senza peraltro valorizzare chi parte più avanti; insomma, contro la barbarie diffusa e dilagante in una società che esclude e offende gli ultimi, mettendo gli studenti l’uno contro l’altro ed esaltando una competizione dagli esiti deleteri.
C’eravamo perché la nostra “via maestra” è sempre stata la Carta costituzionale, mai come in questi anni ferita, aggredita e soleggiata da più parti.
C’eravamo in ricordo della manifestazione di dieci anni fa, indetta, fra gli altri, da Stefano Rodotà, perché noi la Carta la difendiamo a prescindere, chiunque sia al governo.
C’eravamo perché non abbiamo mai ammesso che si parlasse di “morti bianche” quando ci si occupa della strage che investe il mondo del lavoro.
C’eravamo perché siamo solidali con i ragazzi e le ragazze che dormono in tenda per difendere il proprio diritto allo studio e all’abitare, contro un modello di sviluppo discriminante e disumano che rende impossibile ogni forma di convivenza civile e che sta trasformando le grandi città in simboli della selezione degli abitanti per censo.
C’eravamo per dire basta alle troppe ingiustizie che vediamo ogni giorno sotto i nostri occhi.
C’eravamo perché se una sinistra vuol pensare di rinascere, non può che partire da qui.
C’eravamo per ascoltare e osservare, come abbiamo sempre fatto, scendendo in piazza con i nostri dubbi, le nostre paure, i nostri sogni, le nostre speranze, le nostre perplessità e la certezza di dover manifestare, ancora e ancora, in nome dei beni comuni e della dignità di ciascun essere umano.
C’eravamo perché stimiamo profondamente Landini, ritenendolo un esempio da seguire, oltre che un punto di riferimento ogni volta che si tratta di difendere le categorie di cui pochi altri si occupano.
E c’eravamo anche perché fra otto mesi si vota e vogliamo essere protagonisti. Quest’associazione, come sapete, al netto delle scelte delle persone che la compongono, non si candiderà mai a nulla e non sosterrà mai questo o quel partito. Tuttavia, non siamo acritici né asettici. Noi siamo nati per difendere la libertà d’espressione in una delle stagioni più tragiche della nostra storia recente: una stagione che rischiamo oggi di rimpiangere, alla luce di quello che sta avvenendo nel mondo dell’informazione e del clima che si respira un po’ ovunque. Siamo nati prendendo posizione e dicendo la nostra e non rinunceremo a farlo. Noi non odiamo nessuno, salvo gli indifferenti, per il semplice motivo che di fronte a ciò che sta accadendo, voltarsi dall’altra parte sarebbe un atto non solo di codardia ma anche di complicità di chi sta portando l’Italia indietro di oltre mezzo secolo. Noi ci riconosciamo in determinati valori, e la piazza odierna li esprimeva al meglio, come esprimeva il desiderio di una moltitudine di tornare a sentirsi popolo e non solo pubblico, collettività e non più monadi, schieramento e non più minuscola fazione in guerra col prossimo, a cominciare dagli universi più vicini.
Eravamo in piazza perché crediamo in un’idea di pace e di uguaglianza, perché chiediamo che tacciano finalmente le armi e che si cominci a parlare seriamente almeno di tregua (in Ucraina, a Gaza e ovunque), perché vorremmo vedere il fronte progressista unito in vista dei prossimi appuntamenti elettorali, perché non vogliamo vedere mai più un’altra Brandizzo, perché pensiamo che le morti sul lavoro, come detto, siano inaccettabili e che la società si stia quasi rassegnando a un dato che, invece, è allarmante e intollerabile e, più che mai, perché avvertiamo l’urgenza di una mobilitazione che ci accompagni al voto del prossimo 9 giugno, quando in ballo ci sarà la sopravvivenza stessa dell’Europa. Sbaglia, infatti, chi pensa che le prossime elezioni siano ininfluenti o secondarie. Per la prima volta, al contrario, saranno davvero elezioni europee, nel senso che si voterà su piattaforme internazionali, con lo sguardo vigile sulle scelte dei paesi vicini e un’agenda comune che nemmeno i sovranisti sono più intenzionati a negare. Si voterà per una certa idea di mondo o per il suo opposto, ben sapendo che se dovesse prevalere la logica dei muri, dei fili spinati e dell’egoismo spinto all’estremo, il Vecchio Continente diventerebbe marginale a ogni tavolo di discussione globale.
C’eravamo, pertanto, anche per non rassegnarci, pur portando addosso i segni di infinite battaglie e di altrettante dolorose sconfitte. Non ci siamo mai arresi e non cominceremo a farlo adesso, quando la democrazia è in pericolo non solo perché messa in discussione da soggetti autoritari e determinati a sfasciare la nostra casa comune ma perché le crisi a ripetizione con le quali ci siamo dovuti confrontare in questi anni rischiano di far scomparire l’orizzonte democratico dall’immaginario della cittadinanza, disposta magari ad accettare qualche privazione di libertà in cambio della speranza effimera di guadagnarci in benessere. Non c’è orizzonte più ingannevole di questo, non c’è illusione più drammatica, ma bisogna monitorare la situazione ed evitare di puntare il dito contro chi si lascia incantare da queste sirene, perché non saranno certo il disprezzo e la denigrazione a recuperare le masse alla partecipazione politica.
C’eravamo, poi, perché i dati relativi all’astensione ci feriscono profondamente, ogni volta di più, e perché crediamo che una democrazia, per vivere ed essere forte e autorevole, abbia bisogno di una partecipazione massiccia non solo al voto ma anche a mobilitazioni come questa.
E c’eravamo, infine, perché banalmente ci crediamo tuttora, anche se avremmo innumerevoli motivi per lasciar perdere. È proprio nei momenti più difficili, difatti, che bisogna lottare, rimboccarsi le maniche, mettersi in cammino e trovare gli uni negli altri la forza di andare avanti. Questo, con le loro differenze e la loro grandezza, ci hanno insegnato i tanti compagni di viaggio che purtroppo non ci sono più ma resteranno per sempre parte di noi e della nostra storia. E questo ci hanno ripetuto, fino alla fine, anche Tronti e De Masi, cui è doveroso dedicare la manifestazione odierna. Perché non c’è futuro senza radici, e questo è il primo nobile ideale che la politica, se vuole avere un senso, è chiamata a riscoprire.

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