A Roma per la cittadinanza onoraria ad Assange può attendere

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Ancora una volta l’assemblea capitolina ha rinviato il voto sulla mozione che chiede al Sindaco di conferire la cittadinanza onoraria a Julian Assange.

È dallo scorso maggio che la vicenda si sta trascinando, senza trovare neppure una dignitosa conclusione formale: sì o no. In caso il testo non dovesse passare, almeno si conoscerebbero virtù e peccati di chi compone il consiglio della Capitale.

E sì, perché attorno alla storia del fondatore di WikiLeaks si sta giocando una partita a suo modo storica: se il diritto di cronaca ha o meno agibilità in questa stagione, dove prevalgono le cosiddette democrature. Polonia e Ungheria e Slovacchia sono vicine.

Gli Stati Uniti hanno in Europa nuovi alleati nella diminuzione dello spazio per le democrazia e i suoi contropoteri, che si aggiungono alla servile Gran Bretagna, presso le cui Corti si stanno celebrando gli ultimi atti del procedimento per l’estradizione oltre oceano del giornalista australiano.

Se si profilasse il viaggio senza ritorno in un penitenziario nordamericano di massima sicurezza, dopo un processo di comodo già scritto in base ad una legge sullo spionaggio del 1917, perderebbe definitivamente la libertà una persona coraggiosa e con lui perderemmo tutte e tutti noi.

Un diritto fondamentale diverrebbe opzionale, con relativo messaggio: non si ficca il naso nei sacrari indicibili e il prezzo da pagare è persino  la propria pelle.

Per questo il continuo rimandare la decisione romana costituisce un brutto episodio, che si carica di valenze molto elevate proprio per la concomitanza delle scelte del tribunale speciale londinese di Belmarsh.

Risulta incomprensibile, salvo dare retta alle voci maliziose su una presunta subalternità all’ambasciata americana, il motivo di simile tentennamento.

Peraltro, se la prima città a dare simile riconoscimento fu Lucera nel giugno del 2022, recentemente Reggio Emilia e Napoli – per citare i luoghi di maggiori dimensioni- hanno attribuito il riconoscimento a chi ha svelato i crimini delle guerre in Iraq e in Afghanistan dando valore e autorevolezza alla professione giornalistica.

Roma vuole essere da meno? Il luogo delle storiche aperture, dei dialoghi tra aree del mondo diverse, del confronto plurale delle opinioni, della gloriosa Resistenza antifascista rischia di assumere le sembianze di un’espressione geografica del Nord leghista.

I movimenti FreeAssange si sono mobilitati in Italia per ottenere dalle municipalità un segnale certamente utile a rilanciare il clima di opinione che può contribuire a salvare Assange, insieme alle personalità aderenti al primo appello lanciato dal Premio Nobel per la Pace Pérez Esquivel, nonché ai sindacati europei dei giornalisti e all’Ordine professionale italiano.

Non è un caso se il Presidente brasiliano Lula si sta impegnando con passione ad una causa così rilevante, e con lui il collega Castro dell’Honduras. E non è un caso neppure il viaggio di numerosi parlamentari australiani a Washington per difendere la causa del loro connazionale perseguitato senza neppure un dibattimento di merito.

Lo stesso Papa Francesco non ha esitato di ricevere in udienza privata la moglie di Assange -l’avvocata Stella Moris- con i figli. E le udienze vaticane parlano da sole con il loro inequivoco linguaggio.

Come mai, allora, Roma è la maglia nera della cordata libertaria?

Ancora ieri, con la partecipazione anche di Laura Morante, decine di attivisti coordinati da FreeAssange, insieme alle associazioni Articolo21 e ReteNoBavaglio, hanno manifestato davanti al Campidoglio.

Se vicenda si trascinasse ancora, sarebbe prevedibile che la protesta assuma contorni ben più grandi, con un ulteriore colpo inferto alla credibilità di una giunta che aveva creato attese al momento deluse.

Si deve sperare che le nubi si diradino e nei prossimi giorni si possa, invece, ringraziare l’Amministrazione.

PS. La commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai ha varato con una strana maggioranza (destre e 5Stelle) il parere sul contratto di servizio. Un brivido. Si tratta di un bene comune, non di un comizio elettorale.


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