Il problema è il contesto 

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Come ci ha insegnato Roberto Morrione, amico e indimenticato maestro di molte e molti di noi, il problema non è il singolo episodio ma il contesto che lo determina. Questo discorso vale, a maggior ragione, nella fase storica che stiamo vivendo, in un momento nel quale tutto sembra essere andato perduto ed è venuta meno ogni tensione etica, indispensabile per difendere i valori costituzionali e democratici che, non a caso, sono sempre più messi in discussione.
In troppi si sorprendono per il fatto che il berlusconismo continui anche dopo la dipartita del suo fondatore, come se quarant’anni di vita italiana potessero essere superati in un giorno e come se il modello che esso ha introdotto nella società non avesse pervaso ogni ambito della stessa. Aggiungiamo che c’è ben poco da sorprendersi per il fatto che gli epigoni siano ancora più feroci del capostipite nel controllo di ogni ambito  del nostro vivere civile. Può incappare in quest’errore di valutazione solo chi non tiene conto delle mutazioni antropologiche che sono intervenute nel nostro Paese in questi quattro decenni e solo chi non tiene in debita considerazione l’evo che stiamo attraversando a livello globale.

Un mondo in guerra, in cui si parla di bombe a grappolo come se si trattasse di noccioline, in cui si cerca di mettere a tacere persino la voce pacifista del Papa, in cui ogni pensiero dissidente viene aggredito, in cui addirittura ex generali della NATO e ambasciatori di primo piano sono ridotti al silenzio, in cui si stilano elenchi di presunti sabotatori dell’Occidente e nemici della Patria e in cui la sacrosanta condanna del regime putiniano viene condotta da personaggi che fino a un anno fa lo esaltavano senza pudore, non può essere caratterizzato dal dialogo e dal confronto.
Allo stesso modo, quando si è stabilito, di fatto, in questa lunghissima fase di decadenza, che la legge non è uguale per tutti, in una riproposizione di Orwell dai contorni sempre più inquietanti, è piuttosto ingenuo stupirsi per i continui attacchi di una certa politica nei confronti della magistratura, sempre più delegittimata e messa sotto accusa da chi dovrebbe, invece, rispettarne la sacralità e l’indipendenza.
Parlando dell’informazione, abbiamo assistito con una certa incredulità alla presentazione dei palinsesti dei vari gruppi televisivi per la prossima stagione. Ma anche qui, ci spiace dirlo, c’è poco da dolersi quando si constata la degenerazione del quadro complessivo.

Il punto non sono i privati, che svolgono da decenni il loro mestiere, ma la RAI, che dovrebbe essere orgogliosamente servizio pubblico, valorizzando i programmi d’inchiesta e di approfondimento, puntando alla crescita culturale della comunità e rivendicando un’identità diversa rispetto a quella di qualunque tivù commerciale. Avviene questo? No, almeno dal 2001, l’anno in cui troppe cose sono cambiate in peggio: in Italia e non solo. Stupirsi, dunque, sarebbe da ingenui e noi, scusate la presunzione, di questa materia crediamo di intendercene abbastanza, avendo oltretutto denunciato per tempo, ovviamente inascoltati, i rischi connessi alla progressiva mutazione del tessuto cognitivo dell’Italia profonda.
Non intendiamo nemmeno star qui a giudicare le scelte di colleghe e colleghi: il gossip non ci appassiona e le riteniamo comunque legittime, per quanto talvolta assai discutibili. Semmai, ci indigniamo per la derubricazione dei programmi d’inchiesta dal contratto di servizio che regola il rapporto fra lo Stato e la RAI nel prossimo quinquennio. Vedete, come ci ha insegnato Enzo Biagi, esiste una differenza sostanziale fra il servizio pubblico e la vetrina privata di qualcuno. Ecco, noi riteniamo che la RAI debba avere una funzione informativa, non promozionale, meno che mai nei confronti di interessi che non riguardano la collettività ma solo una parte, qualunque essa sia. Non abbiamo mai taciuto, neanche quando al governo c’erano personalità con le quali andavamo oggettivamente più d’accordo rispetto alla maggioranza attuale, e non cominceremo certo adesso. Non solo: riteniamo sinceramente sconvolgente che qualcuno pensi davvero che sia tutto normale e che si sia sempre fatto così, innanzitutto perché non è vero e poi perché, se anche fosse, e ribadiamo che non è, non sarebbe certo un buon motivo per perseverare nel dolo.

Ci sarebbe, poi, la scuola, a proposito della quale continuiamo a leggere proclami cattivisti ad opera di una serie di stanchi soloni che, evidentemente, rimpiangono i bei tempi in cui gli ultimi venivano esposti al pubblico ludibrio con le orecchie d’asino o cartelli irridenti appesi al collo. Ebbene, vogliamo dire a queste persone che, per fortuna, nonostante il periodo atroce che stiamo attraversando, a quell’abisso di orrore non si tornerà. E non ci si tornerà perché la società, per fortuna, ha compiuto dei passi avanti: sul piano pedagogico e nell’idea che si ha dei più deboli. Quel modello, sostanzialmente fascista e sicuramente escludente, oggi è ritenuto inverecondo dalla stragrande maggioranza di insegnanti e presidi, pertanto si rassegnino. A essere tornata in auge, invece, è la malvagità gratuita, insieme alle frasi fatte, ai luoghi comuni, agli slogan privi di senso e alla furia immotivata di chi pensa che, mettendo alla gogna una persona che ha sbagliato, si dia una lezione agli altri, quando è noto fin dalla notte dei tempi che il terrore genera unicamente reazioni isteriche, per lo più violente e non certo improntate al rispetto del prossimo.

Desta impressione che nell’anno in cui ricorre il settantesimo anniversario della tragedia dei Rosenberg, emblema della fase più cupa della Guerra fredda, e del caso Montesi-Piccioni, che interroga il rapporto fra la sfera privata e il potere politico, abbia suscitato più reazioni la scomparsa di Arnaldo Forlani, quintessenza del declino democristiano nel biennio del CAF, al crepuscolo della Prima Repubblica e alle soglie di Tangentopoli, rispetto all’addio di Alain Touraine, lo straordinario sociologo francese che prima e meglio di altri aveva compreso e descritto la genesi e la complessità dei movimenti, le conseguenze della modernità arrembante, le storture della globalizzazione e la necessità mondiale di un cambiamento che scuota le coscienze, riaffermando il valore e l’unicità dell’essere umano nel momento in cui stanno venendo meno i principî su cui si fonda il nostro stare insieme. Ma, come detto, il problema è il contesto e questo è il tempo che ci è dato vivere.

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