Rovigo, emblema della narrazione meloniana

0 0

Lungi da noi l’idea di schierarci dalla parte di una o dell’altra fazione, anche perché, in base al nostro modo di vedere, se c’è un luogo dove non dovrebbero esistere fazioni contrapposte, questo è la scuola. Non entriamo, dunque, nel merito della scelta del consiglio di classe dell’istituto “Viola Marchesini” di Rovigo, tristemente salito all’attenzione delle cronache per via della vicenda, verificatasi lo scorso 11 ottobre, di una professoressa colpita con dei pallini sparati da una pistola ad aria compressa, ripresa con un cellulare e derisa sui social network da alcuni dei suoi alunni.

L’episodio si commenta da solo e lungi da noi fornire qualsivoglia giustificazione all’atto compiuto da questi ragazzi. Il problema è la narrazione che ne è stata fatta in seguito, e questo invece ci riguarda eccome. A quanto pare, infatti, gli artefici dell’esecrabile bravata non sono stati elogiati e posti sull’altare né presi a esempio da chicchessia. Hanno ricevuto un 5 in condotta nella pagella del primo quadrimestre, sono andati da uno psicologo e si sono dedicati al volontariato. E soprattutto, stando a ciò che riportano le cronache, hanno studiato con profitto, almeno in due casi su tre, e si sono guadagnati buoni voti in pagella. Premesso che il 9 in condotta attribuito nello scrutinio finale a uno dei due era forse eccessivo, e che un 8 a entrambi li avrebbe aiutati a comprendere meglio che va benissimo l’impegno ma la correttezza nei rapporti è un valore imprescindibile, ci lascia sgomenti ciò che è avvenuto dopo. Si dice che i criteri di attribuzione del voto di condotta non siano stati rispettati dal consiglio di classe: così sarebbe risultato in seguito alla solerte visita degli ispettori inviati dal ministro Valditara, al punto che i voti dei due ragazzi sono stati abbassati dal medesimo consiglio, nuovamente riunito, rispettivamente a 7 e a 6. Prendiamo per buono questo giudizio impietoso sull’operato della preside e dell’intero corpo docenti e andiamo avanti.

Mi vien da sorridere, da agnostico, nel dover citare la parabola del figliol prodigo. Vedete, qui non si tratta di attribuire ragioni e torti, perché sono ovvi fin dall’inizio, ma di interrogarsi su cosa sia e su cosa debba essere la scuola. Di fronte a ragazzi giovanissimi che commettono un errore di quella gravità, ci sono due strade: una è la punizione severa e senza appello, l’altra è il recupero. E anche le parole hanno la loro importanza. Personalmente, ho espunto dal mio vocabolario, specie quando mi occupo di giovani e di istruzione, termini come punizione, sanzione e bocciatura. Non per niente, ma perché reputo che questa nostra società vada rieducata al lessico della gentilezza. Una risposta ferma e appropriata, sempre stando alle cronache, ha consentito agli aggressori di prendere atto della pericolosità del gesto e di rimettersi in carreggiata. Per noi, questo è il trionfo della scuola. Una comunità educante che si prende cura degli ultimi, dei deboli, degli “sbagliati”, di chi commette azioni intollerabili e si redime attraverso l’impegno e un forte lavoro su se stesso e sulla propria personalità in formazione: noi, almeno, la vediamo così. Dall’altra parte, invece, c’è il pensiero dominante: quello di questa destra, con grandi firme al seguito. Per loro, con ogni evidenza, l’idea di una scuola che prende per mano non è ammissibile. La logica è la stessa del “devono marcire in galera” e del “buttate via la chiave” riferito ai detenuti, del “carico residuale” riferito ai migranti e dell’umiliazione come modello proficuo di crescita riferito a ragazze e ragazzi: un cattivismo continuo, un’educazione all’individualismo che rischia di compromettere la società di domani, rendendola invivibile.

Mettetevi per un attimo nei panni di quei ragazzi. Hanno sbagliato, il loro video è diventato virale, giornali e telegiornali ne hanno parlato ampiamente, il loro anno scolastico è stato già abbastanza segnato: e fin qui possiamo anche dire che è colpa loro. Un intero consiglio di classe, a giugno, ritiene che comunque ce l’abbiano messa tutta per rimediare e decide di tenerne conto, quando ecco che si trovano contro: mezzo governo, alcuni dei principali editorialisti italiani, varie sigle sindacali e addirittura il presidente del Codacons. Ve lo chiedo da adulto, assumendomene la responsabilità: ma non vi sembra un confronto impari? Non notate la sproporzione di forze? Sorge il sospetto, senz’altro malevolo ma non proprio infondato, che si sia voluta strumentalizzare persino una vicenda così delicata per affermare il nuovo statuto del Paese, la logica dello stigma, l’ideologia del marchio a fuoco nei confronti dei reprobi. E allora corre l’obbligo di citare don Milani, perché il mondo, in effetti, non si divide in italiani e stranieri ma in diseredati e oppressi da un lato e privilegiati e oppressori dall’altro. Ebbene, “gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”.

Non sappiamo cosa ne sarà di questi ragazzi, ma vi sbagliate di grosso se pensate, così, di averli educati o resi migliori. Permettetemi un ricordo personale: a quindici anni una professoressa disse in classe che avremmo dovuto aver paura dei nostri insegnanti. Era sicuramente buona fede, ma avvertii comunque il bisogno di risponderle che mi era stato insegnato dai miei genitori ad averne rispetto e che la paura, per me, è contraria al rispetto e, ancor più, alla stima.

Se volete attaccare noi, che osiamo esprimere un pensiero controcorrente in questa stagione in cui sembra essere stato bandito lo spirito critico, fate pure. Ci permettiamo di consigliare alla professoressa aggredita, cui rinnoviamo la solidarietà, di lasciar perdere i tribunali perché la vicenda si è già spinta oltre ogni limite, arrecando danni innanzitutto a lei. Auspichiamo, piuttosto, un confronto, una riconciliazione e un venirsi incontro reciproco: non per buonismo ma perché questo è il compito, la missione della scuola. Ci spiace dirlo, ma a prescindere da questa tristissima storia, stiamo, al contrario, educando una generazione all’odio. Anziché una comunità solidale in cammino, rischiamo di avere un domani insegnanti che strillano e rimproverano, uomini che maltrattano le donne e adulti che non rispettano le regole: tutte monadi che si preoccupano unicamente di se stesse e del proprio effimero benessere.

Sosteneva Maria Montessori: “Tutti parlano di pace ma nessuno educa alla pace. A questo mondo, si educa per la competizione, e la competizione è l’inizio di ogni guerra. Quando si educherà per la cooperazione e per offrirci l’un l’altro solidarietà, quel giorno si starà educando per la pace”.

Ce lo hanno spiegato Primo Levi in “Se questo è un uomo” e Pasolini in “Salò”, lo abbiamo appreso seguendo i processi relativi ai fatti di Bolzaneto, ci è entrato in casa con le immagini strazianti di Guantánamo e Abu Ghraib: non possiamo dire, pertanto, di non sapere dove conduca il principio dell’annientamento dell’essere umano. La scuola ha il dovere di spiegare tutto questo e di contrapporre a quest’abisso di orrore un modello radicalmente alternativo, in cui l’errore, specie se sanato, non pregiudica il prosieguo del cammino. Altrimenti dovremo chiamare pace quello che, in realtà, è un deserto.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21