Omaggio a don Andrea Gallo, un prete “diverso”

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Se in Toscana sono i preti a essere insoliti, a Genova lo sono un po’ tutti: i preti, gli avvocati, i magistrati, in qualche caso persino alcuni poliziotti. Perché Genova, in fondo, è un porto, una frontiera, un luogo d’incontro e di confronto, una terra fragile e meravigliosa in cui si incrociano storie, passioni, sentimenti, emozioni e speranze. Di questo fantastico crogiolo, don Andrea Gallo ne era l’anima e il figlio prediletto. Partigiano, sacerdote di strada, pacifista, vero erede di don Milani, rivoluzionario, alterglobalista, eretico, quasi sempre in contrasto con le gerarchie ecclesiastiche, mai domo nell’opporsi alle ingiustizie e attento come nessun altro alle esigenze degli ultimi, il Don era un sognatore che non si è mai arreso. Il suo Vangelo, del resto, era lo stesso dell’amico Fabrizio De André, l’idea che portava avanti era quella di un Dio d’Avvento, seguace della Teologia della Liberazione e precursore in questo di papa Francesco, con la porta della sua comunità sempre aperta a chiunque ne avesse bisogno.
Genova per me costituisce un viaggio senza fine, un’avventura umana e direi quasi spirituale, e San Benedetto al Porto è un luogo dell’anima, un esempio e un punto di riferimento. Il Don l’aveva creata per gli esclusi ma accoglieva con amore chiunque scegliesse di recarvisi, e il suo esempio viene seguito oggi da chi ne ha raccolto l’eredità.
Una notte, un caro amico mi telefonò a proposito della mia inchiesta sui fatti del G8 e mi disse: “Ti è mancato solo don Gallo”. Non fui d’accordo. Il Don, infatti, era in ogni puntata, con il suo spirito e le sue idee, perché lui che la globalizzazione senza regole avrebbe condotto il mondo nel baratro l’aveva capito ben prima della mattanza e si era subito schierato dalla parte degli oppositori. Insieme a don Luigi Ciotti, don Vitaliano Della Sala, padre Alex Zanotelli e altri sacerdoti da marciapiede, era il più scatenato nel denunciare le distorsioni legate a un modello di sviluppo che esaltava i più forti, un Occidente predatore e animato da antichi istinti coloniali, e rendeva succubi i più deboli, il Sud del mondo strangolato da un debito che mai avrebbe potuto ripagare e reso sempre più fragile dalla depredazione del proprio territorio. Sotto i tendoni del Carlini, nelle giornate che precedettero la barbarie, nelle assemblee infuocate e nelle discussioni animate sul futuro dell’umanità, erano le suore e i missionari i più scatenati, e don Gallo offriva loro sostegno e incitamento, come aveva sempre fatto nel corso di un’esistenza straordinaria. Del resto, non voleva attraversare la vita, lasciarsi vivere e subire passivamente il corso degli eventi; abitava il pianeta e voleva determinarne gli esiti, con la sua predicazione al servizio degli esclusi, con le sue azioni concrete e con la sua passione civile che lo portava, naturalmente, a essere in minoranza.
Don Gallo era venuto sulla Terra per annunciare il Vangelo e prendersi cura dei sofferenti: non a caso, sembra quasi che con papa Francesco, dieci anni fa, si sia passato il testimone. Per un Don che ci diceva addio, un uomo venuto dalla “fine del mondo” ascendeva al soglio pontificio per restituire alla fede il suo significato autentico.
Don Gallo viveva, e vive tuttora, nei vicoli e nei carruggi, fra le prostitute e le princesas, che considerava sorelle e di cui vedeva innanzitutto l’umanità, non il peccato. Tuttavia, è bene sottolineare, per quanto si trattasse di un pensatore universale, che Genova per lui era un po’ più di una terra natia. Come detto, un personaggio del genere poteva esistere solo lì, in quell’universo speciale, in quella città senza eguali, “nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, in quella storia di partenze e arrivi incessanti, in quel vivere fra sogni e illusioni, in quel non perdersi mai d’animo, in quel tempo sospeso e in quella storia che ricomincia ogni giorno e non sta ferma mai, proprio come il suo mare. Genova, per don Gallo, era un posto rivoluzionario: dai cantautori ai disperati, al punto che si prendeva cura di chiunque, senza mai chiedere nulla in cambio e senza temere le conseguenze delle sue azioni, il più delle volte in contrasto con la narrazione ufficiale.
Non a caso, quando erano arrivate le prime scuse per gli orrori commessi durante il G8, il Don fu inflessibile: non le accettò perché sapevano di ipocrisia. Non le accettò perché erano formali. Non le accettò perché non scorgeva dietro quelle parole la sincerità necessaria per riconoscere il pentimento dei responsabili, anche perché questo elemento, clamorosamente, mancava. E non le accettò, soprattutto, perché non tollerava che quegli otto signori si fossero arrogati il diritto di intrappolare per giorni e giorni una città, recintandola con grate altissime e rendendo la vita impossibile sia agli abitanti che ai manifestanti. Non riconosceva, in poche parole, a quegli otto personaggi il diritto di decidere per tutti e non ha mai perso un’occasione per farglielo sapere.
Fino all’ultimo, il Don si è fatto vedere in piazza Alimonda accanto alla famiglia Giuliani, fino all’ultimo ha testimoniato il suo sdegno per quella strage di volti puliti e di proteste pacifiche, fino all’ultimo ha ribadito che un altro mondo fosse davvero possibile e che i giovani dovessero rivendicarlo con forza.
Il Don era Genova e Genova era il Don. Già dieci anni, dunque, e risuona in me una domanda che mi fa sempre un po’ sorridere: “Quando torni a Genova?”. Per chi la conosce e la ama veramente, l’unica risposta possibile è: “Mai”. Perché a Genova non si può tornare: una volta che l’hai vista e conosciuta nelle viscere, è impossibile andar via.

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