Il nuovo racconto di Santachiara: “Il tesoro della regina”

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A due anni dall’uscita de La purezza del serpente, lo scrittore emiliano Stefano Santachiara torna in libreria con un nuovo racconto d’avventura. Il tesoro della regina, che sarà presentato ufficialmente tra un mese nella Biblioteca di Piozzano con l’associazione culturale Rio Canto, è ambientato in pianura padana, affronta temi sociali e di attualità passando attraverso diversi contesti storici. Il tesoro di fantasia è quello della regina longobarda Teodolinda, venuto alla luce durante i bombardamenti tedeschi della seconda guerra mondiale, nascosto da un partigiano e torturato per questo dai nazisti. In un giorno di nebbia fitta del nuovo millennio un sottile filo unisce il furto di una vecchia foto del Castello longobardo a casa della nipote del partigiano, una ricercatrice universitaria, e l’arrivo in città di un avido miliardario e dell’eccentrica moglie. C’è un enigma da risolvere e nello stile dell’autore il percorso delle vite dei personaggi, che sembra parallelo, via via si incrocia svelando tasselli del mosaico e suggerendo profonde riflessioni. Il tesoro della regina evoca miti ancestrali e vicende medievali con atmosfere a tratti oniriche, ma non mancano situazioni umoristiche legate anche alle moderne tradizioni emiliane, come quelle del “sommo poeta del tortellino” e dell’appassionato di auto sportive. Le descrizioni e il ritmo sono cinematografici, dal libro infatti è tratta la sceneggiatura di un film in fase di progettazione per il 2024, sarebbe il terzo per Santachiara, la cui ultima pellicola, Il pastore e la strega, sarà dal prossimo ottobre nei cinema.

Per gentile concessione dell’autore pubblichiamo in anteprima uno stralcio del romanzo:

(…) Il loro spazio, angusto e disadorno, aveva l’aspetto di un castigo dietro la lavagna: constava di un piccolo tavolo scolorito, tre seggiole di legno cigolanti, un panno di lana e una macchina del caffè con le cialde. La lavagna, scettro del docente, si trovava in un limbo condiviso con il vecchio computer, la fotocopiatrice, la stampante e il resto della cancelleria. Il professore attribuiva sempre il disordine alle ricercatrici, laddove era egli stesso, il più delle volte, a disseminare fogliacci e mozziconi di sigaretta; sennonché in un’occasione ebbe a definire quel “caos ispiratore un’energia creatrice, un continuo interscambio che soggiace alle più virtuose leggi evolutive, un approccio emico che ci consegna l’armonia del cosmo”. Ma i discorsi pomposi e preparati avevano poco a che spartire con il progetto di ricerca sui Babilonesi, si trattava piuttosto di blandizie per edulcorare le pretese di ore di lavoro straordinario e gratuito di lezione, ricevimento e correzione delle tesi. Le due assegniste erano costrette ad accettare parimenti a quasi tutti i colleghi italiani, ma almeno mettevano sul piatto della bilancia una chiara esigenza. Non materiale, come si evinceva dalla misera condizione dell’ufficio di loro pertinenza, bensì progettuale: erano riuscite a ritagliarsi un pertugio di indipendenza nel quale scavavano fino all’origine delle comunità non ancora patriarcali. “Alla stregua dei detenuti che preparano la fuga, noi intaschiamo i granellini di polvere delle scoperte fino all’essenziale” bisbigliavano tra il serio e il faceto (…)

Dopo essersi allontanata dalla zona universitaria, Sara fece alcune compere. Passò dal fornaio e dal fruttivendolo, entrò in farmacia e in un negozio di telefonia a chiedere se il proprio smartphone era stato riparato. La risposta negativa del commesso non l’aveva seccata, anzi, rifletteva sulla necessità di disintossicarsi da quello schermino dannoso per gli occhi anche in senso lato: “Ci stiamo disabituando a prestare attenzione alle cose reali, a osservare i dettagli che il mondo ci dona; molte persone ormai passano più frammenti della loro esistenza con il telefonino che con gli amici, rinunciando a nuove conoscenze”. Alla fine del giro delle spese era sempre carica di sacchetti e sporte. “Un ottimo sostituto del sollevamento pesi” ragionava in positivo.

Ad accoglierla sulla porta solitamente trovava la madre Teresa. Forse avvertiva in modo eccezionale la tipologia di passi o il profumo a molta distanza; sia come sia, appena la figlia apriva il portone elettronico dell’ingresso generale, operazione comune a tanti inquilini, Teresa intuiva. Da dieci anni si era separata dal padre di Sara, tuttora formalmente suo marito.  Questi, di mestiere avvocato, aveva già ottenuto al tempo del matrimonio la divisione dei beni; dopo la rottura acconsentì che moglie e figlia rimanessero a vivere nell’appartamento del centro e nulla più. Riusciva a turlupinare la donna con trucchetti da azzeccagarbugli, rendendo estenuante la lentezza delle pratiche di divorzio al fine di non pagare gli alimenti. Teresa si era già arresa da un pezzo, non aveva alcuna voglia di perdere serate a discutere con tre avvocati: la propria legale via via si era fatta inglobare nel circolino di amici degli amici del marito e aveva la sensazione che, cambiandola, sarebbe finita alla stessa maniera. Anche se i soldi le avrebbero fatto comodo, preferì un lavoro a tempo pieno in fabbrica e qualche rinuncia del dispensabile.

Era convinta che Sara sarebbe cresciuta meglio così, più povera ma con gli esempi giusti. Il padre era spesso assente, trascorreva lunghi periodi all’estero per convention e altri impegni improrogabili, almeno sulla carta, in realtà trasferte opache che occultavano un’esistenza torbida. Già da piccola Sara sopportava a stento le rapide cene che l’avvocato consumava senza vivificare contatti umani. E soffriva per il modo in cui trattava la madre. Quando la notte, dalla sua cameretta, la sentiva piangere in silenzio, sola in soggiorno, correva da lei. Teresa subito la rimproverava, invitandola a dormire perché la mattina c’era scuola, ma poi accarezzava il viso della figlia, consolandola e trovando ella stessa pace. Le stagioni più serene erano le vacanze estive al mare. Sara veniva attratta in modo viscerale dall’elemento acqua, aveva imparato a nuotare da sola e poteva farlo per ore, senza stancarsi. Così Teresa affittava un bungalow per due mesi di fronte alla spiaggia libera: esaurite le sue ferie, affidava la figlia alle parenti. Alla madre Maria, finché non venne a mancare, e alla zia, una simpatica signora che abitava in zona con la famiglia. In spiaggia libera l’avvocato non metteva quasi mai piede. Se si presentava a sorpresa pareva sempre in prestito. Vestito di tutto punto, con il cappello di lino, non aveva la benché minima intenzione di spogliarsi. Era gelosissimo delle sue scarpe firmate, quasi un feticcio: non permetteva alle donne di casa di toccarle, facendole lucidare da un’azienda specializzata, figurarsi se granelli di sabbia si fossero introdotti nella sacra calzatura. Sotto l’ombrellone, dal nulla, scoppiavano furiose litigate con Teresa. Sara si interrogava vanamente su una sorta di comma ventidue: “Lui odia questo posto e di conseguenza perde la pazienza oppure fa apposta ad alterarsi per potersene andare più in fretta?”.  Per anni cercò di comprendere se alla base di quell’acredine onnipresente ci fossero relazioni extraconiugali, amicizie sbagliate o cos’altro. Una sera d’autunno capì che vi era di più, qualcosa di non detto, un terribile segreto. “Ti picchia?” chiese alla madre dopo aver notato un livido all’altezza dello zigomo. L’avvocato si era appena alzato da tavola dopo aver gettato a terra il piatto di ceramica pieno di tortellini fatti a mano dalle due donne. La ceramica di maiolica, un ricordo delle nozze a Capri, sfarzosa cornice scelta per compiacere i colleghi dell’avvocato, andò in mille pezzi. Teresa non rispose a Sara, la guardò tenendole le spalle, inumidì gli occhi che si specchiavano con quelli fieri, severi, indagatori della figlia, e si mise a piangere abbracciandola stretta stretta. Erano trascorsi più di tre lustri ma nelle mente della ragazza il livido della madre restava una ferita destinata a non rimarginarsi.

Bastava una piccola anomalia a impensierire Sara, come adesso che stava rincasando. Trovò la porta dell’ingresso spalancata e fu assalita da un brivido. Sì, correndo nel salotto era attraversata dall’incubo dell’avvocato. La madre era seduta sulla seggiola del soggiorno, con i gomiti sul tavolo di legno massello, che a quell’ora di sera era già ricoperto dagli arabeschi della tovaglia. “Sara…”, le disse affranta.

Sara: “Cos’è successo?”

Teresa: “Sono venuti i ladri”.

Sara: “Ma di giorno, quando eri in casa?”

Teresa: “No, mentre ero al mercato a fare la spesa. Ricordi stamattina, con tutta quella nebbia?”

Sara: “Cosa hanno rubato?”

Teresa: “Ma niente, ho controllato, non manca niente, non c’erano soldi o cose preziose. L’ultima a stare qui è stata Agnese”.

(…) La camera degli ospiti un tempo era la stanza della madre di Teresa, Maria. Gli armadi erano stati svuotati dei suoi vestiti, semplici, scoloriti, ma ancora vivaci grazie alla policromia floreale. Sulla credenza luccicava, miracolosamente in bilico, una vecchia macchina da cucire a pedali trasportata dalla campagna alla nuova casa in centro.

Sara, entrando nella camera: “Non lo so, ho una sensazione strana”.

Agnese: “Quale?”

Sara: “E’ come se… come se ci fosse un segreto in questa stanza”.

Agnese rimase attonita.

Sara, guardandosi attorno: “Una coincidenza incredibile, il furto e…”

Agnese: “Il professore”.

Sara: “Eh, ci ha parlato dei Longobardi e del Castello”.

Agnese “E i ladri entrano in casa tua e rubano proprio la foto del Castello”.

Sara cominciò a rovistare nel cassetto del nonno, dopo un po’ consegnò ad Agnese il fazzoletto rosso.

Agnese: “Che bello, mia nonna ne ha uno uguale, color porpora, anche la tua lo portava per coprirsi quando faceva la staffetta?”

Sara: “Sì, fecero la Resistenza insieme con Johnny”. I pensieri della ragazza volarono ai racconti di nonna Maria, per alcuni lunghi secondi rimase assorta, con la mente fra le spighe di frumento: “Mia mamma nacque una mattina, in un campo di grano”.

Agnese: “Dolce”.

Sara: “Tutti e due, belli come il sole. Ma non poterono neppure sposarsi. Maria si è immaginata molte volte come sarebbe stato il matrimonio”.

Agnese: “Mi spiace”.

Sara: “Crebbe da sola una figlia. Perse anche la casa, buttata giù dalle bombe. Ma con l’amore riuscì a farcela”.

Agnese, stringendo il fazzoletto: “L’energia più grande”.

Sara, concentrandosi di nuovo sul cassetto: “Su, ora dammi una mano”.

Agnese: “Ma cosa stai cercando?”

In quel momento Agnese si avvide di un piccolo pezzo di pergamena. Sara si girò leggendolo per prima: ThesaurusTXI.

Sara: “Dov’era?”

Agnese: “Nelle pieghe del fazzoletto”.

Sara: “Cosa significa?”

Agnese: “E’ un’iscrizione, tesoro più… Forse i numeri romani indicano l’undicesimo secolo”.

Sara: “E la T?”

Agnese: “Un enigma”.

Sara: “Molto antico, guarda la carta di pergamena”.

Agnese: “Già, dell’Alto Medioevo”.

Sara: “I Longobardi…”

Agnese: “Hai con te il libro?”

Sara: “No, è all’uni”.

Una visita inaspettata ruppe l’atmosfera e il principiare di un ragionamento che avrebbe potuto portare lontano.

“Allora sciamannate, che si dice?”. Era André, piombato in camera senza aver suonato il campanello né chiesto permesso. D’altronde Teresa non era in casa.

Sara: “Non è il momento André”.

André: “Ma voi siete sempre storte? Dai che ci andiamo a fare un’ape”.

Agnese: “André, guarda questa iscrizione. Aiutaci a risolvere il rebus dei numeri romani e della doppia T”.


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