I rimpatri forzati sono causa di sofferenze e inadeguati ad affrontare il presente e il futuro

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Ho trovato ottimo, non è una sorpresa, quanto scritto su Art 21, nel pezzo “I muri che uccidono” della collega e amica Angela Caponnetto. Del resto per chi scrive è ormai un punto di riferimento non solo nelle tematiche riguardanti l’immigrazione, le frontiere, le regole assurde che hanno permesso di far divenire l’Europa una fortezza. Angela, come altre e altri, provano a raccontare con rigore e partecipazione quanto avviene nel Mediterraneo, spesso nell’indifferenza o, peggio, scontrandosi con ostilità e fastidio.

C’è un altro tema che andrebbe risollevato per procurare un minimo di discussione in quello che resta dell’opinione pubblica. Anche noi, operatori dell’informazione, centriamo spesso l’attenzione unicamente sul mare o sulle rotte terrestri di chi fugge da guerre, catastrofi ambientali, repressione, perdendo però di vista un punto fondamentale, tanto per il nostro Paese che per il continente. Da anni, vivono, lavorano, subiscono angherie in Europa, milioni di persone che non hanno potuto regolarizzare la propria presenza nel Paese in cui si sono stabiliti. Spesso non sono richiedenti asilo, hanno costruito una propria aspettativa di vita, magari sono riusciti anche a garantirsi un’occupazione (spesso al nero), un’abitazione (senza contratto).

A volte, come si dice in Germania, sono persone la cui presenza non regolarizzata è “tollerata” perché necessaria a mandare avanti interi comparti dell’economia. L’ultimo dato continentale, del Pew Research Center, risale al 2017. Si stimava, per difetto, che almeno 4,7 milioni di persone erano presenti nei paesi UE senza titolo per restarvi. Una cifra che, a causa di numerosi fattori, in primis la facilità con cui si diventa “irregolari”, basta perdere il lavoro in alcuni paesi come il nostro, è cresciuta con la pandemia e non certo con gli arrivi via mare. In alcuni Paesi si vanno prendendo provvedimenti di diversa natura: Spagna, Germania, Francia, Portogallo, stanno provvedendo con diverse modalità a regolarizzare una parte delle persone presenti. Il governo spagnolo è quello che è intervenuto forse con maggiore determinazione, si sono agevolati i procedimenti amministrativi di regolarizzazione, per chi risulta presente da almeno 2 anni, in Francia prevale la volontà di separare i “gentili” quelli che servono e non hanno mai subito condanne, dai “cattivi”, per cui rendere più facile l’espulsione.

Si offrono ai primi contratti di un anno, nei settori che hanno bisogno di manodopera, a condizione che non si sia mai incappati in provvedimenti giudiziari. Solo in caso di rinnovo del contratto costoro potranno chiedere anche il ricongiungimento familiare. Il progetto francese deve ancora vedere luce e fa parte di una revisione della legge specifica sull’immigrazione. Anche la Germania, dal primo gennaio 2022 ha agito per regolarizzare 100mila persone, presenti da almeno 5 anni, che abbiano una conoscenza del tedesco e che si siano integrate. E l’Italia? Dopo il tentativo, mal fatto e portato avanti in maniera peggiore col “decreto rilancio” del giugno 2020, che riguardava l’emersione dal lavoro nero di persone irregolari impegnate unicamente in agricoltura e nel lavoro di cura, tutto si è fermato. Delle 207mila domande presentate, due anni e mezzo fa, non più del 50% è stato ad oggi esaminato per assenza di personale nelle prefetture. Il meccanismo di emersione è farraginoso e ricade in gran parte (anche se ufficialmente non risulta) sulle spalle di chi lavora, numerosi sono stati i casi di contratti truffa, con contributi non versati e pratiche non inviate, messe in piedi anche da agenzie fasulle che hanno fatto perdere soldi e speranze a chi cercava di crearsi una vita normale e che a volte hanno estorto soldi anche nelle tasche di imprenditori onesti.

Tante le ragioni e lunghe da spiegare per cui il decreto era inevitabilmente destinato a non funzionare. Oggi ci si ritrova in Italia con una cifra oscillante fra le 400mila e 600 mila persone prive di diritti e non per causa loro. La causa primaria di tale situazione è legata ad una legge fallimentare come la Bossi Fini, che ha compiuto lo scorso anno 20 anni e che andrebbe abrogata per fare i conti col presente. In primis la legge non ha permesso, anzi ha ostacolato, nel mercato del lavoro, persino l’incontro fra domanda e offerta. Contrattualizzare una persona priva di titoli di soggiorno è nei fatti impossibile, può accadere solo, in caso di insufficienti “decreti flussi” per il lavoro stagionale. Laddove si finge che la lavoratrice o il lavoratore siano stati chiamati e quindi appena arrivati in Italia (in realtà si chiamano persone già presenti) e poi si cerca, in maniera quantitativamente e qualitativamente insufficiente, di far divenire meno precari tali contratti. Ma è una lotteria. La legge è però la punta dell’iceberg di un concetto erroneo. Si pensa di poter far entrare nel Paese “quelle e quelli che ci servono”, coloro che svolgono le occupazioni che gli italiani non vogliono o, più spesso, per invecchiamento demografico, non possono più fare. Questo in un Paese che non è più attrattivo da tanti anni, in cui i salari sono fra i più bassi d’Europa. La politica, la società civile, i corpi intermedi, l’informazione, dovrebbero intervenire in maniera drastica e immediata. Come? Proponendo meccanismi di “regolarizzazione permanente” a chi possa essere contrattualizzato in ogni comparto in cui lavora (non solo agricoltura e servizi alla persona), a chi è autosufficiente economicamente e magari è in condizioni di aprirsi una partita iva, a chi ha maturato nel Paese legami affettivi o di relazione sociale col territorio tali da esserne divenuto parte. E si badi bene, un percorso del genere è quello che è più in grado di produrre sicurezza sociale, di sottrarre alle attività illegali, manodopera a basso costo disposta a tutto. Permettere a chi vuole emergere di avere un documento, una residenza, un percorso di inclusione socio lavorativo, una formazione linguistica, significa rompere quei muri che non sono al di fuori dai confini ma che si sono stabilizzati fra persone, fra sommersi e salvati. Non è unicamente una scelta di alto valore etico che rinvigorirebbe la natura democratica di questo Paese e potrebbe divenire indicazione significativa verso tutto il continente. Sarebbe anche una scelta conveniente, dal punto di vista sociale ed economico. Aumenterebbe il gettito fiscale, determinerebbe una maggiore coesione sociale che è in quanto tale fattore di sviluppo in ogni senso. Si tratterebbe di un percorso da intraprendere per modificare radicalmente la narrazione tossica e l’agenda politica, in materia di immigrazione nel Paese. E a chi pensa che “gli irregolari vadano rimpatriati ad ogni costo”, a chi continua ad utilizzare, spesso con miseri errori anche lessicali il termine “clandestini”, sperando di guadagnare consensi con l’ormai logoro approccio da imprenditori della paura, andrebbe ricordata una cosa semplice. Anche volendo, anche facendo i “cattivi”, la media europea dei rimpatri effettuati è del 21% degli irregolari rintracciati. I rimpatri forzati sono costosi, inutili, causa di sofferenze, inadeguati ad affrontare il presente e il futuro. Altro che buonismo, trattasi di un principio di realtà. Se ne potrebbe iniziare a discutere o ci si limita a far soffrire per qualche giorno in più chi è riuscito a salvarsi da un naufragio?
Stefano Galieni


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