Il voto “per disperazione” e il simulacro di democrazia 

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L’impressione che si avverte, in questi giorni di convulsioni atroci in cui si dibatte la politica italiana, è che tanto a sinistra quanto a destra si respiri un’aria da scampato pericolo. A parte la Meloni, che ha inequivocabilmente vinto questa tornata elettorale, altrove non si sta riflettendo a dovere su ciò che è accaduto domenica scorsa. Prendete la Lega, che è franata non solo rispetto alle trionfali Europeee del 2019 ma anche rispetto alle ben più modeste Politiche del 2018, quando tuttavia era riuscita a superare Forza Italia e a lanciarsi come prima forza del destra-centro. Ebbene, ha dimezzato i voti e oggi non arriva al 10 per cento, con annesse polemiche interne, benché tenute a bada da un ambiente di matrice e cultura “leninista”, e velate minacce alla Meloni, qualora dovesse essere meno generosa del previsto nella concessione di dicasteri di peso al Carroccio, fino ad arrivare all’ipotesi estrema dell’appoggio esterno all’esecutivo. Dubitiamo che accada, anche se siamo quasi sicuri che Salvini non otterrà nuovamente il Viminale: perché è contrario Mattarella, perché ha già ampiamente fallito la prova di governo in quel ruolo e perché la Meloni sa bene che il leader leghista utilizzerebbe l’incarico per fare propaganda, crescere nei sondaggi, rilanciare la propria immagine e metterla costantemente in difficoltà, essendo gelosissimo del successo dell’alleata-rivale. Quanto a Forza Italia, è da anni un ex partito. Si regge unicamente sul carisma decrescente, per evidenti e comprensibili limiti d’età, del suo leader storico, parla ormai a un pubblico di fedelissimi e non ha alcuna prospettiva futura, essendosene andati quasi tutti gli ideologi e alcuni dei punti di riferimento che hanno segnato un trentennio della storia politica italiana. Resiste per mancanza di alternative, perché il Terzo Polo di Renzi e Calenda è più una versione aggiornata dell'”Italia dei carini” raffigurata da Crozza nello sketch in cui prendeva in giro Montezemolo che un embrione di partito liberal-democratico di stampo europeo e perché può garantire ancora una prospettiva di potere al suo ceto politico. Non ha più un’anima, tuttavia, né un orizzonte chiaro davanti a sé, proprio come non ce l’hanno coloro che vorrebbero prenderne il posto. Nel caso di questi ultimi, molto c’entra l’ego che notoriamente caratterizza i due alfieri di Azione e Italia Viva. Senza contare che Renzi apre al presidenzialismo, caro alla Meloni, mentre Calenda, al momento, è contrario, e non è da escludere che le contraddizioni possano esplodere più avanti, specie se la Lega dovesse trasformarsi in una polveriera ingestibile e a uno dei due dovesse venire in mente di aggregarsi alla maggioranza di destra-centro, magari fornendo un appoggio esterno. Se questo è un versante, l’altro è messo pure peggio. Basti pensare al M5S, che ha molti meriti storici e alcune innegabili virtù ma anche il non piccolo limite di dover capire cosa voglia fare da grande. Vuole davvero trasformarsi in un partito progressista di stampo europeo, riprendendo i temi di Corbyn e Mélenchon, con uno sguardo rivolto oltreoceano all’avventura di Sanders e della Ocasio-Cortez? E allora deve liberarsi di tutti i suoi inutili dogmi: dal limite dei mandati ad altre esagerazioni che lo rendono francamente ambiguo, oltre a smetterla una volta per tutte di contemplare un certo isolazionismo, tanto caro ai duropuristi della prima ora quanto inutile se si vuole essere il perno di un rinnovato campo progressista. Sul PD verrebbe quasi voglia di sorvolare. Un agglomerato di correnti, una maionese impazzita, una cacofonia di voci che dicono l’una l’opposto dell’altra, una spasmodica ricerca di leader e competizione selvaggia, un desiderio di primarie e corse in avanti che rendono bene l’idea di come non abbiano capito quasi nulla di ciò che è accaduto e di quello che hanno subito: se rimangono così, oltre a essere invotabili, saranno anche completamente inutili, in un Paelamento in cui il governo procederà a colpi di decreti e fiducie. E nel Paese non saranno in grado di dialogare con le mille piazze che verranno a crearsi contro i provvedimenti annunciati dalla destra, ponendosi come aggregatori di un dissenso sociale che, in assenza di partiti, sarà furioso ma sterile, con il serio rischio di tensioni difficilmente componibili. Insomma, siamo di fronte al vuoto assoluto. L’assenza del governo e quella dell’opposizione o, per dirla con maggior pacatezza, un simulacro di entrambi. Ma così è la democrazia a venire meno, e con essa la tenuta dello Stato, delle istituzioni e del nostro stare insieme.

Domenica scorsa, penso per l’ultima volta, molte e molti di noi hanno votato “per disperazione”, magari neanche credendo al simbolo su cui mettevano controvoglia la croce. Ebbene, sappiate che non accadrà più. In tanta malora, al prossimo giro, l’unico voto che varrà la pena di esprimere, per di più in mancanza di un’effettiva autonomia decisionale sulle grandi questioni internazionali che stanno sconvolgendo le nostre vite, sarà il non voto.


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