Genova 2001 – Italia 2021. II parte. Pietro Montani: “Diaz – Don’t clean up this blood, il film polifonico su Genova 2001”

1 0

“Per maestri ho avuto i miei occhi”.

Michelangelo Antonioni

Pubblichiamo la seconda tappa del viaggio dentro Diaz: il film di 10 anni fa, il libro del luglio scorso edito da Fandango, la Storia di 20 anni fa, quella antecedente ai ‘fatti di Genova’ e le ripercussioni in questo nostro tempo. Dopo il puntiglioso e raffinato intervento di Alberto Crespi (https://www.articolo21.org/2021/08/genova-2001-italia-2021-i-parte/), è la volta di riflettere sulle parole di Pietro Montani, filosofo, critico cinematografico, professore di Estetica presso l’Università La Sapienza di Roma. Il professor Montani propone chiavi di lettura precise e con un rigore analitico inoppugnabile. Passa dal Cineocchio di Dziga Vertov alla costruzione e al significato del Movimento “New Global” e, ricordando il progetto “IndyMedia”, giunge all’attuale Movimento ambientalista “Fridays for Futures”; entra poi nel film di Vicari penetrandone le molteplici chiavi di lettura: dallo studio minuzioso all’effettivo utilizzo dei materiali di repertorio e di archivio; dalla modernità del linguaggio cinematografico di Diaz alla capacità di scavare nelle coscienze da parte di un film che Montani mette sullo stesso piano etico ed estetico di film come Una giornata particolare (Ettore Scola, 1977) e Buongiorno, notte (Marco Bellocchio, 2003). Il filosofo conclude questa emozionante conversazione soffermandosi sulla negazione del sottotitolo di Diaz: Don’t clean up this blood, che rifiuta l’insopportabile perdita di memoria.

Ma le anticipazioni limitano la sorpresa e lo stupore del percorso, del quale bisogna godere attraverso la lettura. Buon viaggio, dunque, e alla prossima fermata, dell’anima e dell’intelletto, con Daniele Vicari.

D. Nel suo saggio in volume, paragona il Cineocchio di Vertov (film del 1924 di Dziga Vertov, anticipa il Realismo Socialista Sovietico e sottende una struttura teorica di scrittura cinematografica per le masse come forma di comunicazione collettiva che, come la scrittura lineare, risponda allo scopo di far conoscere, apprendere e interiorizzare le immagini), alla potenza ‘polifonica’ del film di Vicari: ‘strumento critico’ per la costruzione del dubbio, del moltiplicarsi delle domande che lo spettatore accumula, dopo la visione del film. Ci vuole parlare di questo e di che attinenza ci sia tra la sospensione di ogni Diritto Umano e della Persona di Genova 2001 e la nostra Storia, oggi?

R. Per rispondere a questa domanda che tocca diversi punti, bisogna distinguere alcuni piani.

Il primo piano è storico e riguarda la fondazione del movimento internazionale di protesta nato a Seattle, nel 1999. Lì, accaddero cose molto importanti, ma non prive di qualche ambiguità.

Accanto a Naomi Klein e Noam Chomsky, c’era José Bové che oggi forse ascriveremmo al gruppo dei “Gilet Jaune” (2018). Lo stesso slogan che diede vita a quel movimento prendeva spunto da un notissimo bestseller della stessa Klein, No logo, uscito proprio in quel periodo.

Da lì, prende il nome quel Movimento che, infelicemente, fu chiamato “No Global” (1999): definizione che lo fa sembrare localista e conservatore. Quel Movimento non lo era affatto, naturalmente, e per fortuna qualcuno pensò a una definizione più adeguata, quella di New Global, che io trovo più precisa e applicherei senza esitazioni all’attuale Movimento svedese e poi internazionale di Greta Tumberg “Fridays for Future” (2018). La formula “New Global”, infatti, fu un modo nuovo e differente di guardare alle esigenze ecologiche, economiche e politiche del Pianeta, esattamente come l’odierno Movimento ambientalista “Fridays”.

Questa premessa mi permette di ricordare che, contemporaneamente ai fatti di Seattle, nacque proprio a Seattle quel progetto che si chiamava “IndyMedia” (1999), il quale aveva uno slogan schiettamente vertoviano, appunto, e felicissimo, e che era “Don’t hate the media, become the media”: non odiare i media, ma diventa un medium, conosci la comunicazione, usala, diventa tu stesso un mezzo di comunicazione. Questa espressione si diffuse esattamente nel momento in cui il Mondo, consapevolmente o meno, era appena entrato e stava per tuffarsi nel pieno dell’era digitale. Esattamente allora nasceva quella tecnologia che stava per farci diventare ciò che siamo: dei media potenziali, o, per dirla con Vertov, dei veri “Cineocchi”.

Tanto è vero che al G8 di Genova 2001, per la prima volta a mia memoria, si utilizzarono contemporaneamente, spontaneamente, in modo non programmatico eppure oggettivamente coordinato, centinaia, migliaia di strumenti digitali di riproduzione della realtà. Abbiamo, ancora oggi, un’ enorme quantità di testimonianze visive e di repertorio e di archivio, di quei giorni. Cosa rara, preziosa e particolarissima e che, ripeto, prima di allora io non ricordo. Ho lavorato a lungo con l’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico (AAMOD), dove sono conservati i materiali di quei giorni di Genova.

Per arrivare alla sua domanda, è da quei materiali, girati e archiviati in quel clima storico, sociale e culturale, che ha cominciato a lavorare Daniele Vicari per il suo Diaz, come lui stesso ha dichiarato più volte. E questa contestualizzazione storica è imprescindibile, per parlare del film e l’aspetto principale che dobbiamo considerare è proprio la connessione tra il Movimento internazionale di protesta e l’idea base del progetto “IndyMedia”: un grande insieme e coordinamento di informazione alternativa al livello mondiale, partendo dal presupposto che tutti, e ripeto tutti, avremmo potuto cominciare, da allora in poi, a non odiare i media, ma a diventare noi stessi media: veicoli di documentazione e, eventualmente, di testimonianza attiva.

L’altra questione che si aggancia a quel pullulare di materiali visivi presenti a Genova nel 2001, riguarda il fatto che Vicari ne abbia tratto un film di fiction. O meglio, un film che interpola alla fiction alcuni frammenti della documentazione realizzata nelle giornate del G8. Diaz ha in sé quel precipuo aspetto di documentazione filmata dei fatti reali, eppure c’è una attenta costruzione di personaggi di finzione che si intersecano a quei materiali d’archivio. Ecco, l’intreccio di questi molteplici elementi combinati di realtà e finzione fa del film di Vicari un autentico film “polifonico”. La molteplicità delle voci, le vittime, i poliziotti che non si preoccuparono di lasciare ai manifestanti una via di fuga dalle loro cariche… Di quel periodo, sappiamo chi fosse il Vicepresidente di quel Governo Berusconi 2001 (che fu, forse, il momento di maggior forza della storia politica dello stesso Berlusconi e il governo più longevo dalla caduta del Fascismo), sappiamo i nomi del Capo della Polizia, del Ministro degli Interni: sappiamo chi era ai vertici. Ma le vere responsabilità di quella barbarie di Stato sono ancora in larga parte da verificare. Nel film di Vicari si riconosce qualche voce dissenziente tra i rappresentanti dei comandi intermedi di Polizia e Carabinieri, insieme alle tante e diverse voci delle vittime, storie configurate dalla sceneggiatura del film e storie ricostruite a partire dai documenti: insomma, un film corale, polifonico e ‘intermediale’, nel senso che la sua materia prima è costituita dall’intreccio, spesso dissimulato, di fiction e documento.

Vanno quindi distinti i due aspetti. Lo studio e l’utilizzo delle immagini repertorio degli archivi e l’aspetto narrativo e finzionale. La scelta di Vicari è stata chiara e precisa: servirsi dell’enorme archivio documentale delle giornate del G8 come di un canovaccio da rispettare con la massima fedeltà. Ho visto le immagini di costruzione del film, il backstage, nelle quali Vicari si preoccupava di seguire i precisi movimenti di comparse e attori, affinché ripercorressero esattamente quelli delle persone presenti a Genova, rispettando in modo fedele ciò che aveva potuto stenografare mentalmente, a partire dalle immagini di repertorio che aveva studiato. C’è quindi la ricerca archivistica alla base della costruzione narrativa del film. Costruzione narrativa che Vicari ha ritenuto di voler confermare, assumendo il maggior numero possibile di punti di vista. Una narrazione ‘corale’, quindi, nella quale non c’è un solo protagonista, come ho accennato, ma molti protagonisti, perché non c’è nessun personaggio al quale si possa affidare la narrazione, che è invece condivisa tra tutti, nella coralità della vicenda.

Ma c’è ancora un altro piano, successivo. L’utilizzo dell’archivio, con le sue innumerevoli testimonianze visive e la molteplicità di punti di vista narrativi, fa sì che si possa realizzare, in questo film, una piena ‘autonomia dell’immagine’. Nessun archivio, infatti, parla da solo, nessun documento è già, di per sé, una testimonianza: bisogna ‘saper fare parlare’ le immagini di repertorio, attraverso il montaggio e altri interventi formali. La scelta di Vicari, che avevo intuito vedendo il film per la prima volta e che mi è stata confermata dal regista stesso, è stata quella di utilizzare pochissimi spezzoni del materiale girato dai testimoni di Genova, come vennero chiamate le centinaia di persone che documentarono le immagini di quei giorni. I repertori sono stati studiati, analizzati, ricreati, ma non così utilizzati come si potrebbe immaginare o credere.

Vicari ha fatto un lavoro di studio e ricostruzione insostituibile.

D. Crede che Vicari, con questo film, abbia voluto realizzare un’opera di ‘testimonianza’?

R. Tutto dipende dal significato che stiamo dando al concetto di ‘testimonianza’. Se lo intendiamo come il resoconto fedele di un testimone dei fatti, la risposta dev’essere negativa. Lo stesso vale per l’idea di testimonianza storiografica: quella in carico allo storiografo che ricostruisce, per quanto possibile, l’oggettività delle cose accadute. Se invece intendiamo ‘testimonianza’ nel senso di libera assunzione critica dei fatti nella memoria condivisa da una comunità, allora la risposta dev’essere positiva. Pensiamo a un film come Buongiorno, notte, di Marco Bellocchio, che non ha di mira, ad evidenza, nessuna ricostruzione oggettiva dei fatti, ma solo un’audace e potente riflessione critica, con la quale si può concordare o discordare, sul peso che il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta ebbero, e continuano ad avere, nella nostra memoria condivisa, e nel fatto che questa memoria è tutt’altro che pacificata, piena di conflitti irrisolti, oltre che di documenti da sottoporre al vaglio storiografico.

Ecco, da questo punto di vista, Diaz è perfettamente riuscito: il mio contributo al volume, cita una frase di Vicari stesso che mi sembra adattissima a spiegare quello che intendo dire: “ Si entra con alcune domande ma se ne esce con molte: si esce dalla visione con molte più domande di quante se ne avesse quando si è entrati in sala, non certo con più risposte. Se questo era l’obiettivo del film, piuttosto che la testimonianza nel primo senso chiarito sopra, Vicari c’è riuscito perfettamente, perché ha una sorta di profondità simile a quella di Buongiorno notte di Bellocchio, o di Una giornata particolare di Scola (che sposta completamente l’assetto narrativo di ‘denuncia’, appunto, delle discriminazioni del Fascismo, verso un contesto privatissimo, nel quale la denuncia risulta potentissima).

La cifra d’ ‘autore’ di registi capaci di fare film così è l’audacia, nel senso critico del ‘testimoniare’ che ho indicato prima.

D. Parte della critica ritiene che, con Diaz, Vicari abbia tentato di mettere ordine nel disordine della Storia. E’ d’accordo con questa interpretazione?

R. Sarei in disaccordo con chi volesse sostenere che Diaz voglia ricondurre a un ordine narrativo, sintattico, intellegibile il coacervo di eventi molto opaco che sono caratteristici di quelle giornate di Genova. Io credo che, accanto a una sintassi molto generale, polifonica, stereoscopica, come ho detto, il film restituisca piuttosto l’essenziale opacità di quei fatti. Un’opacità che sta soprattutto nel disordine, nel mancato rispetto di una sintassi narrativa stringente, che è caratteristica peculiare di quelle giornate ed è testimoniato dalla pluralità dei punti di vista che Vicari mette in campo. Vicari restituisce la mancanza di uno sguardo dall’alto, nei fatti e, quindi, nel film. E questo è un tratto di fedeltà ai materiali di repertorio, voglio specificarlo ancora, sui quali lui stesso ha lavorato. L’ambiguità di quei giorni è pienamente riscontrabile nel film. A fronte di un film che voglia ricostruire la sequenzialità presunta dei fatti trovando elementi intellegibili, laddove c’è invece disordine e ambiguità, mi sembra più riuscito, più fedele, più ‘testimoniale’ nel senso chiarito sopra, un film che restituisca il disordine, laddove c’è disordine e ambiguità, nella forma della pluralità e della polifonia scelte da Vicari.

Il nodo è complesso, proprio perché tocca, come già detto, la differenza tra testimonianza storica e costruzione filmica e Vicari non sceglie la storiografia, ma il film. Bisogna poi fare molta attenzione anche al sottotitolo del film: Non pulire questo sangue. Il NON segnala che c’è ancora molto da chiarire, sul piano della ricostruzione dei fatti e delle responsabilità, ma segnala anche che quel chiarimento non basta a fare testimonianza nel senso della memoria condivisa. Segnala che, anche quando si ottenessero tutti i documenti necessari a ricostruire fatti e responsabilità, quel sangue NON dovrebbe comunque essere rimosso dall’ambito della memoria condivisa. È questo il difficile compito testimoniale che si assumono film come Buongiorno, notte o Diaz – Don’t clean up this blood.


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21