Ebrei e palestinesi. All’inizio era la convivenza

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Le piogge di razzi e di bombe sono cessate, ma la situazione sembra peggiorare. Dallo scontro bellico con Israele il fronte palestinese esce più diviso di prima, con Hamas rafforzato, mentre sul fronte israeliano sembra di nuovo in sella Netanyahu che prima sembrava dover lasciare il potere anche grazie alla disponibilità dei partiti arabi di entrare nella maggioranza di governo, pur di sbarazzarsene.

Dello scontro causato dal tentativo di un gruppo di coloni israeliani di impadronirsi, con l’appoggio dell’esercito di occupazione, della Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme risultano vincitori i due opposti estremismi al prezzo di 252 morti e di grandi rovine a Gaza. La pace resta ancora lontana.

Per capire qualcosa della “guerra infinita” tra Israele e il popolo palestinese occorre andare molto indietro nel tempo, a prima della proclamazione nel 1948 dello Stato di Israele. Gli effetti di quell’avvenimento sarebbero infatti incomprensibili senza sapere della nascita del Sionismo e della Dichiarazione di Balfour. Per apprezzare però il ruolo di questi due antefatti bisogna rapportarli al contesto europeo che li ha originati.

È quello che, anche se sommariamente, proviamo a esaminare.

In Europa come nei Paesi arabi ci sono state da sempre molte comunità ebraiche. Nei Paesi arabi non ebbero problemi. Anzi, quando nel 1492 la cattolicissima Spagna li espulse, gli “ebrei erranti” vi trovarono accoglienza e amicizia e lì hanno vissuto per secoli in armonia. Era del tutto normale che tra famiglie palestinesi e famiglie ebraiche vi fossero legami di amicizia.

Non così nei Paesi europei dove i “perfidi ebrei”, come nella liturgia cattolica è stato menzionato il “Popolo del Libro” sino a quando il Vaticano II abolì quella insulsa dizione, erano oggetto di discriminazioni e persecuzioni, anche di pogrom. Relegati nei “ghetti” e limitati nelle loro attività, quando nacque l’esigenza di finanziare il commercio sempre più fiorente, l’esercizio del credito fu affidato a loro, infedeli, poiché per i cristiani prestare soldi a interesse era peccato. Lo stereotipo dell’ebreo spilorcio, avido e usuraio è sorto così. La “questione ebraica” insomma è stata causata in Europa. Sin dai tempi antichi, per sfociarvi poi in un’orrenda tragedia.

Nel 1938 la situazione si aggravò terribilmente: in Germania e in Italia e anche in Austria, Francia, Polonia e Ungheria arrivò l’ignominia delle leggi razziali. Negli anni successivi fu l’orrore: si giunse a pianificare scientificamente e con precisione teutonica la tragedia della Shoah, che costò la vita a 6 milioni di ebrei.

Anche il colonialismo è un venefico prodotto dei Paesi del primo continente che hanno disseminato di “imperi” e “colonie” tutto il resto del mondo. Negli ultimi due secoli hanno dedicato al Medio Oriente particolare interesse, sfruttandone le enormi riserve energetiche e costruendovi, su progetto italiano e a opera di una compagnia francese, il Canale di Suez. Aperto nel 1869, è di vitale importanza per i commerci europei, tanto che Francia e Inghilterra non esitarono a inviare nell’area navi da guerra e truppe quando nel 1956 il presidente egiziano Nasser annunciò di volerlo nazionalizzare.

Tra l’‘800 e il ‘900 l’Europa è stata pure culla del nazionalismo che non risparmiò i Paesi arabi. Il nazionalismo è un movimento politico e ideologico che mira all’esaltazione e alla difesa della nazione. Senonché le nazioni, come afferma il filosofo Bendict Anderson, sono degli «artefatti culturali», delle «comunità immaginarie » che a volte si scontrano con la realtà. Andando in cerca di un nemico, infiammano gli animi e pongono i popoli l’uno contro gli altri. Nell’ultimo secolo ha causato guerre con milioni di morti.

In un clima di acceso nazionalismo, nel 1894, anno anche di forsennato antisemitismo si ebbe in Francia un errore giudiziario che fece epoca. Fu condannato e imprigionato per spionaggio e tradimento un ufficiale dell’esercito francese, Alfred Dreyfus, di religione ebraica (a distanza di anni l’errore fu stato riconosciuto e Dreyfus riabilitato e reintegrato nell’esercito tanto da partecipare alla guerra del ‘14-‘18). Il caso ebbe grande clamore e non solo in Francia. Colpì particolarmente un giornalista ungherese, di lingua tedesca, Theodor Herzl, corrispondente da Parigi del quotidiano viennese Neue Freie Presse. Herzl, ebreo, convinto che gli ebrei dovessero avere un proprio Stato per vivere in pace, colse l’“affaire Dreyfus” per fondare insieme a Max Nordau un movimento ebraico irredentista che, con il significativo nome di sionismo, prese vita nel Congresso di Basilea del 1897. Il sionismo, con diverse posizioni culturali al suo interno e una forte impronta nazionalista, mosse alla ricerca di «una terra senza popolo per un popolo senza terra». In un primo momento si orientò anche verso aree ben lontane dalla Palestina, quali Kenya, Uganda e persino America Latina e Canada. Ma un nuovo avvenimento ne mutò l’indirizzo.

Nel 1914 era scoppiata la “grande guerra” tra quattro imperi dell’epoca, l’Austro-Ungarico e l’ Ottomano contro Gran Bretagna e Francia. Vi si aggiunsero, per ragioni irredentistiche l‘Italia e, per ragioni economiche, gli USA.

Al profilarsi della sconfitta e quindi della dissoluzione dell’Impero ottomano l’attenzione delle principali potenze vincitrici, Gran Bretagna e Francia, puntò sull’opportunità di spartirsene le spoglie e di porre nell’area strategicamente rilevante del Medio Oriente un proprio avamposto. Il 12 novembre del 1917 il primo ministro della Gran Bretagna, Balfour, dichiarò ai massimi esponenti del sionismo che la Corona britannica avrebbe visto di buon occhio l’insediamento in Palestina di un “focolare” per il popolo ebraico. Così, per dirla con le parole dello scrittore ebreo Arthur Koestler, «una Nazione promise a un’altra Nazione la terra di una terza Nazione». È la nascita della “questione palestinese”.

Finita la “grande guerra” e dissoltosi l’Impero ottomano, non per caso la Società delle Nazioni affidò il “mandato” di amministrare la Palestina proprio alla Gran Bretagna che non mancò di fare inserire nel “mandato” i termini della Dichiarazione di Balfour. L’Inghilterra si fece così dare ufficialmente l’incarico di costruire le condizioni per la nascita di uno Stato per gli ebrei in Palestina.

Durante il “mandato britannico” iniziò l’afflusso nella “Palestina mandataria” di una consistente corrente migratoria di famiglie ebree che vi comprarono quanti appezzamenti di terreni agricoli poterono. Verso l’ultimo periodo del mandato – scadeva il 15 maggio del 1948 – iniziarono, debolmente contrastate dalle forze armate britanniche, anche scorribande di squadre di civili armati, considerati eroici patrioti dagli ebrei sionisti e temibili terroristi dai palestinesi. Appartenevano alla Banda Stern, di cui la Storia non parla bene.

Le condizioni perché potesse rapidamente sorgere in Palestina uno Stato per il popolo ebraico erano dunque realizzate e l’obiettivo degli imperialismi europei raggiunto. Un nuovo soggetto stava quindi per entrare nella Storia del mondo. È di tale importanza che merita un racconto a parte.

Queste note non possono concludersi però senza sottolineare l’enorme responsabilità dell’Europa che da 73 anni assiste inerte alla guerra tra due popoli che si contendono una terra sulla quale per secoli erano convissuti in pace e amicizia. Guerra causata dallo scontro delle due “questioni” da essa stessa direttamente generate.

Nino Lisi è membro della Rete Romana di Solidarietà con il Popolo Palestinese  


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