Black Lives Matter: oltre l’hashtag activism

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Piacersi e piacere sui social sembra diventata una pratica narcisistica, in cui la sovraesposizione di sé e della propria immagine su piattaforme come Instagram e Facebook, Twitter e Snapchat, presenta alcuni tipici caratteri compulsivi, ma anche propensione alla vanità ed alla manipolazione.Il rapporto tra narcisismo e post, ma ancora di più tra narcisismo e video si misura a suon di filtri, selfie e parodie di vite da upper class. In alcuni casi poi i post vengono infiochettati dall’ostentazione di buoni propositi e cause imbracciate sul web.

Se da un lato l’immagine di sé appare filtrata, dall’altro però il pensiero che alcuni utenti presentano è distorto, a vantaggio di una migliore reputazione.

Così per essere appealing sui social, una parte degli utenti si mostra compassionevole e proattiva, scrive post degni dei discorsi per la finale di Miss America, manifesta interesse per le grandi questioni sociali, sebbene oltre il like di facciata non ci sia molto altro.

Tra i trending topic dal forte impatto social si registrano le questioni razziali, le battaglie per i diritti civili, le marce contro la violenza di genere, a favore della pace e contro il terrorismo, di denuncia o solidarietà.

Il cancelletto accomuna insomma le più popolari campagne della rete, creando quello che prende il nome di hashtag activism. Dal #BlackLivesMatter passando ai popolari #BringBackOurGirls #MeToo #JeSuisCharlie #Notinmyname #OscarSoWhite #iononsonounvirus.

Acceleratori delle campagne web sono: la viralità e l’immediatezza nella diffusione dei contenuti; le conseguenze: i riflettori puntati su notizie eclatanti o argomenti d’interesse generale, con la possibilità di incidere su cambiamenti sociali e politici, dare voce a gruppi minoritari o meno rappresentati nella sfera pubblica.

Una parte di lettori ricorderà che, in Florida, George Zimmerman aveva sparato ed ucciso il diciassettenne afroamericano Trayvon Martin, Zimmerman tuttavia venne giudicato non colpevole nel 2013, perché avrebbe agito per legittima difesa. A seguito della pronuncia, cominciò a circolare in rete l’hashtag #BlackLivesMatter in segno di dissenso per quanto accaduto. L’hashtag fu ideato da Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi, che hanno co-fondato il movimento divenuto popolare nel 2014, dopo le proteste in strada per la morte di due afroamericani: Michael Brown ed Eric Garner, uccisi da agenti di polizia. Dopo le proteste di Ferguson, i partecipanti del movimento hanno continuato a scendere in strada per manifestare per altri afroamericani, uccisi in seguito ad azioni dei Cops o durante la custodia in carcere.

Si considerino ancora le migliaia di persone radunate sulla 42ma strada per dare un ultimo saluto a George Floyd, tutti muniti di mascherine per dire il proprio no al razzismo e chiedere una riforma della polizia USA.

Per restare in USA, hashtag molto noti sono stati:

nel 2014 #BringBackOurGirls, diffuso da Michelle Obama per contestare il rapimento di 110 ragazze di un istituito tecnico e scientifico nello stato di Yobe, nel nord-est della Nigeria, da parte del gruppo terrorista islamista Boko Haram. La condivisione dell’hashtag dai profili di milioni di utenti aumentò la consapevolezza globale rispetto alla vicenda e la notiziabilità del problema;

nel 2017 #MeToo è stato l’hashtag divenuto virale sui social media per dimostrare la frequenza di violenze sessuali e molestie subite dalle donne soprattutto sul posto di lavoro. La sua diffusione ha avuto inizio dopo le rivelazioni pubbliche e le accuse di violenza sessuale contro il produttore di Hollywood Harvey Weinstein;

nel 2020, quando sono state annunciate le nomination agli Oscar, è tornato tra i trending topic anche #OscarsSoWhite, l’hashtag lanciato nel 2015 dal direttore editoriale di BroadwayBlack.com April Reign, per chiedere di allargare la platea di candidati e vincitori ad attori e registi dalla pelle nera, asiatici e latini. Le polemiche si sono scatenate sui social ma anche sui media per la scelta di attori solamente bianchi, persino tra attori e attrici non protagoniste. E verrebbe da chiedersi quanti fanno finta di non ricordare i dati diramati da Census Bureau, l’Ufficio del censimento degli Stati Uniti d’America, secondo cui la popolazione bianca dopo il 2044 sarà minoranza?  https://www.census.gov/newsroom/press-releases/2015/cb15-tps16.html

L’accezione dispregiativa dell’attivismo da hashtag però è dietro l’angolo e ritiene quest’effetto bombing illusorio e propagandistico, più che rispondente ad un impegno concreto sul campo, che possa essere di lungo respiro. In parecchi casi riguarda un’adesione di comodo a slogan noti, a cui non consegue alcun atto, e l’inganno o la trappola sta nel pensare che la forza dirompente dell’approvazione della causa sui social, comporti una reale consapevolezza e sostegno ad alcune battaglie.  In molti casi il gradimento indicato con un cuoricino non rispecchia il pensiero effettivo dell’utente, né tantomeno l’avvio di una pratica solidale che concorra alla soluzione del problema, anzi potrebbe essere il risultato o l’ultimo anello di uno studiato piano di targeting on line.

A poche settimane dalla triste fine di Floyd, per tornare a Black lives matter, la considerazione è che si assisterà alla solita carambola dell’up & down della notizia, e quindi al clamore seguirà il silenzio del secondo piano e lo sdegno dei cittadini, per i tanti George Floyd sparsi per il mondo, lascerà un po’ il tempo che trova.

La presa di coscienza contro le disuguaglianze e per l’affermazione dei diritti e delle libertà fondamentali non può essere demandata agli interventi sui social, né può essere la bandiera sventolata un giorno sì e l’altro no, oltre l’hashtag activism c’è di più ed impatta sulla governance delle politiche sociali ed economiche dei diversi Stati.


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