“L’aria della libertà. L‘Italia di Piero Calamandrei” di Nino Criscenti e Tomaso Montanari. Prefazione di Salvatore Settis

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La libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai.

Dal discorso ai giovani sulla Costituzione di Piero Calamandrei – Milano, 26 gennaio 1955

È in libreria L’aria della libertà. L‘Italia di Piero Calamandrei di Nino Criscenti e Tomaso Montanari, con prefazione di Salvatore Settis.

Tratto dall’omonimo spettacolo andato in scena in vari teatri, da Roma a Reggio Emilia, da Firenze a Palermo, il libro è disponibile anche sul sito dell’editore (www.storiaeletteratura.it) sia in formato cartaceo che in e-book.

Pubblichiamo l’introduzione scritta dai due autori.

 

«Voler bene all’Italia »: la bellezza come resistenza

«La piazza, anche oggi, è il più dei giorni tranquilla e spopolata. Ma questa solitudine non è desolazione o abbandono: è piuttosto un certo gusto di appartata intimità». Così Piero Calamandrei descrive alla fine degli anni 30 del Novecento, nell’Inventario della casa di campagna, Piazza Grande a Montepulciano, «il mio giardino d’infanzia … una pista da giuochi, tra gli scalini di travertino del nostro palazzo e le scalinate del duomo lì di faccia, fatte di mattoni a spina di pesce». Da metà luglio a metà settembre, ogni anno, era lì, in casa del nonno paterno, Agostino, il signor Pretore, che abitava in palazzo Tarugi, una di quelle “solenni architetture cinquecentesche” cui Piero attribuiva il merito di aver mantenuto la piazza “così discreta e accogliente”. Andava a rivederla ogni anno, quella “piazza amabile”, nei brevi ritorni a Montepulciano da Firenze, la sua città. Nella primavera del ’35 ci torna con quattro amici, Pietro Pancrazi, Luigi Russo, Alberto Carocci e Nello Rosselli: sarà la prima delle passeggiate domenicali che da allora diventeranno “una cara consuetudine settimanale”, nata da un “desiderio di solitudine e di evasione”. Evasione “dalla città rintronata dagli ululati delle adunate coatte”, per andare in cerca «della libertà perduta – racconterà Calamandrei –. Ogni domenica una meta nuova: uno qualunque di quei vecchi paesi, ognuno dei quali ha una sua fisionomia inconfondibile come un volto vivo».

A Cerreto Guidi, a Monterchi, alla chiesa di Polenta, alla Pieve di Gropina, a Cosa, a Sovana, a Monsummano, a Dianella, a Vincigliata, a Settignano, e a Siena, Viterbo, Perugia, Piero e i suoi amici sono andati a cercare “il vero volto della patria”. Sono a Urbino il 9 maggio del ’37 quando il regime festeggia l’annuale dell’Impero “fondato dal Duce, presidiato dal coraggio indomabile e fecondato dalla strenua fatica del popolo italiano”. Sono a Montepulciano nei giorni del varo delle leggi razziali, del “Razzismo fascista”, titolo dell’editoriale del Corriere della Sera, 8 ottobre ’38: “Provvedimenti discriminativi resi urgenti da quei motivi di ordine politico superiore che si riducono sostanzialmente a uno solo: l’inconciliabile contrasto tra la mentalità fascista – autoritaria, dogmatica, omogenea – e quella ebraica – ipercritica, corrosiva, eterogenea. Sono nelle terre dei padri etruschi nel Viterbese il 10 giugno del ’39, quando “gli equipaggi della gloriosa flotta d’Italia sfilano dinanzi al Sovrano e al Duce tra i monumenti dell’imperitura potenza di Roma”.

«Quello che Calamandrei vedeva intorno a sé non era più la patria, la sua patria – ha scritto Alessandro Galante Garrone – . Il regime, con la sua orgia di retorica patriottarda, con l’apologia della violenza e della sopraffazione, aveva finito per determinare in Calamandrei e nei suoi amici insofferenza e disgusto, e quasi una crisi di rigetto, nei confronti dell’augusta parola bestemmiata dai fascisti: patria». E Calamandrei, nel diario al 1° agosto del ’43: «Una delle cose più gravi del fascismo è stato questo: uccidere il senso della patria». Sono parole di chi la patria l’ha amata al punto da partire volontario nella Grande Guerra, mosso dalla passione per la causa di Trento e Trieste. Una scelta che non impedì a Calamandrei, distintosi per il coraggio, di difendere i soldati ingiustamente accusati di diserzione e di scrivere alla moglie, dal fronte nel novembre del 1916: «Mi domandi perché c’è la guerra. Sono tanti mesi che me lo domando anch’io. Forse la legge che presiede al mondo ha voluto che, come accanto alla luce del sole esiste la tenebra notturna, così vi fosse una cosa orribile come la guerra per far meglio apprezzare agli uomini una cosa meravigliosa com’è l’amore». È che Calamandrei la priorità l’ha sempre data al momento morale. Così nella sua opposizione al fascismo, che ha inizio subito, già nel ’20, con Salvemini e i fratelli Carlo e Nello Rosselli: “un’opposizione della ragione umana contro il ritorno della bestialità”, ha sottolineato Galante Garrone. E un impulso morale guidò quella declinazione dell’antifascismo che furono le passeggiate domenicali.

Di quei luoghi, di quelle pietre abbiamo le immagini. Ce le ha lasciate Calamandrei stesso che delle passeggiate è stato anche il fotografo. Per vederle bastano pochi passi da Piazza Grande: si prende via Ricci e si arriva a palazzo Sisti, dove dal 2000 ha sede la Biblioteca  Comunale di Montepulciano e Archivio Storico “Piero Calamandrei”. Stanno lì le istantanee della Rolleiflex di Piero, in un grande album di 101 fogli marrone scuro, 64 dei quali con le 350 foto delle gite. E accanto all’album si conservano i 959 fogli del manoscritto del diario, dal 1° aprile 1939 al 6 febbraio 1945.

Non poteva che nascere tra i libri uno spettacolo che è fatto di memoria, memoria affidata alla carta, la carta fotografica, la carta del diario di Piero, la carta delle lettere dei suoi amici. Da quelle immagini, da quelle parole è nata, insieme con Tomaso Montanari, L’aria della libertà, storia che dalla scena qui torna alla carta, storia di resistenza al fascismo, di guerra e di ricostruzione, materiale, politica e morale: dalla dittatura alla Costituzione.

Torniamo a Piazza Grande, tanto cara a Calamandrei. «Questa serena piazza provinciale, che era popolata per noi dei magici ricordi della fanciullezza, ha perduto per sempre la sua pace accogliente da quando sappiamo che vi è rimasto esposto per ventiquattro ore, tra sentinelle tedesche, un povero ragazzo innocente impiccato ad una inferriata». Quando rievoca quel crudele episodio dell’occupazione nazista, Calamandrei è un padre costituente. Siamo a  novembre del ’47 e quelle parole le scrive in un corsivo con cui risponde dalla sua rivista, Il Ponte, “a qualche anima bennata che si sente offesa e impietosita” di fronte alle forche e ai giustiziati del processo di Norimberga. «Guai se non si fosse arrivati a questo epilogo: guai se alla fine non avessero prevalso le leggi universali decretate dai gemiti e dalle invocazioni dei milioni di martirizzati innocenti! ». E conclude richiamando «le leggi, non scritte nei codici dei re, alle quali obbediva Antigone, le ‘leggi dell’umanità’ che furono fino a ieri una frase di stile relegata nei preamboli delle convenzioni internazionali – queste leggi hanno cominciato ad affermarsi, nella funebre aula di Norimberga, come vere leggi sanzionate: ‘l’umanità’, da vaga espressione retorica, ha dato segno di voler diventare un ordinamento giuridico». Parole di cui quanto mai abbiamo bisogno oggi, abbiamo bisogno sempre. (Nino Criscenti)

 

 

Quando Nino Criscenti mi propose di portare a teatro il rapporto tra Piero Calamandrei e il territorio italiano rimasi di sasso. Un conto era provare a far lezione di storia dell’arte davanti ad una macchina da presa invece che di fronte ad un’aula piena di studenti: ma il teatro era davvero tutt’altra faccenda. Cosa c’entravo io con il teatro, un luogo così sacro da aver paura anche solo a pronunciarne il nome ad alta voce?

Poi cominciai a capire.

Nino aveva visto che mi ero appassionato alla figura di Calamandrei, prendendola da un punto di vista meno consueto: il Piero che confesserà al figlio Franco che, se fosse stato libero dall’antico retaggio familiare, non avrebbe fatto il giurista, ma «lo storico dell’arte o l’archeologo». Il Piero che il 15 settembre del 1944 riapre, da rettore, l’Università di Firenze con un discorso tutto centrato sul valore civile della cultura, e soprattutto su quello del paesaggio e dell’arte: una specie di prova generale di quell’articolo 9 della Costituzione che pochi anni dopo sarà scritto da un’assemblea di cui proprio Calamandrei sarà un membro importante.

A Nino, invece, stava a cuore un altro Piero: meno ufficiale. Anzi, privatissimo. Quello che, tra il 1935 e lo scoppio della guerra, lasciava ogni domenica la Firenze fascista per cercare nel paesaggio e nei monumenti dell’Italia centrale «il vero volto della patria», per respirare «l’aria della libertà». Piero non partiva solo: i suoi amici si chiamavano Luigi Russo, Pietro Pancrazi, Nello Rosselli, Alessandro Levi, Guido Calogero, Attilio Momigliano, Ugo Enrico Paoli, talvolta Benedetto Croce, Adolfo Omodeo e in qualche occasione Franco Antonicelli e Leone Ginzburg. Era il vertice della cultura italiana: il meglio dell’Italia antifascista.

Ora, mi spiegava Nino, nell’Archivio Calamandrei – conservato nella Biblioteca Civica di Montepulciano – esiste un grande album, con le foto che Piero ha scattato durante quelle indimenticabili, struggenti gite. E quelle immagini si potevano ricucire alle parole che Piero aveva disseminato in lettere e scritti vari, e poi a quelle che, a partire dal primo aprile 1939, annota nel suo diario.

La strada si faceva più chiara: «in centinaia di documenti letti e in migliaia di documenti non letti sopravvivono ancora in archivio anche le voci dei defunti, e la pietà dello storico ha il potere di riconferire timbro alle voci inudibili. A una condizione: se non sdegna la fatica di ricostruire la naturale unità fra parola e immagine». L’ha scritto Aby Warburg, e fu la prima cosa che mi venne in mente di fronte a quelle immagini. Ritratti dell’Italia: del suo territorio e della sua moralità. Di uomini e cose, di monumenti e di intellettuali. Immagini mute senza le parole di quegli uomini: così come quelle parole rimanevano inerti finché non si accettava di sostenere lo sguardo di quegli occhi quasi inquietanti, tanto sono pieni di interrogativi, di sofferenza, di fierezza.

Ebbene, quell’unità si poteva ricomporre, nel tipico lavoro dello storico dell’arte. Certo, di uno storico dell’arte che non disdegni di ricordare che la sua disciplina è parte di una più vasta storia della cultura, e che quel groviglio ha un fondamentale valore civile. Politico, nel senso più alto e più nobile. Come ha scritto Norberto Bobbio, «solo chi crede che la politica non sia tutto giunge a convincersi che la cultura svolge un’azione a lunga scadenza, anch’essa politica, ma di una politica diversa … Solo chi crede in un’altra storia – vi crede perché la vede correre parallelamente alla storia della volontà di potenza –, può concepire un compito della cultura diverso da quello di servire i potenti per renderli più potenti, o da quello, ugualmente sterile, di appartarsi e di parlare con se stesso».

È esattamente in questo varco strettissimo che si svolge tutto il discorso – tessuto di immagini, parole, musica – che si dipana nelle prossime pagine.

Tra i tanti temi che vi si intrecciano ce n’è uno terribilmente attuale: il tormentatissimo nesso tra intellettuale e potere. Un tema cruciale della storia della coscienza occidentale. Il dovere del dissentire in pubblico, la necessità di opporsi ad ogni prepotenza: l’imperativo vitale di non lasciare – è ancora Bobbio ­– a chi ha il monopolio della forza, anche il monopolio della verità.

Sul rapporto tra intellettuali e fascismo esiste un’intera biblioteca storiografica, dove i protagonisti delle prossime pagine sono stati anatomizzati, spesso tra vivaci polemiche, nei loro atti di coraggio, come nelle loro viltà. La sofferta incapacità di Piero di prendere le armi ne è – per esempio – un tema cardine.

Non abbiamo avuto certo l’ambizione di proporre nuove interpretazioni, di dare nuovi giudizi. Volevamo però sottolineare una cosa, fin qui assai poco detta: anche la bellezza dell’Italia – la sua natura, la sua storia, la sua arte: inestricabilmente fuse in un solo corpo – ha partecipato a questo tormento. Calamandrei diceva che quelle gite non erano «estetismi da amici dei monumenti», ma concreti atti di resistenza culturale e politica: il rifiuto di servire al potere del fascismo, dunque, ma senza l’appartarsi a parlare tra pochi silenti oppositori.

È la ricerca di una dimensione embrionalmente pubblica, comunque sociale e collettiva: non uno svago, non un divertimento, ma un impegno, un cimento. Come se la vicinanza al massimo bene comune dell’Italia – il suo meraviglioso corpo – potesse indurre pensieri e parole utili a ricostruirne il massimo bene politico e morale: la libertà.

Fu questa prospettiva a convincermi della travolgente attualità di questa storia: oggi che la bellezza della natura, la verità della storia, la giustizia dell’arte vengono trattate come merci utili a anestetizzare clienti inconsapevoli arricchendo monopoli privati, è rivoluzionario ricordare che la contemplazione di un paesaggio, la conoscenza di un monumento, una gita nella bellezza in compagnia di pochi fidati amici possono essere l’insostituibile palestra di una implacabile determinazione a ribellarsi allo stato delle cose. Oggi che il nostro stile di vita minaccia la sopravvivenza stessa della specie e del pianeta, oggi che il «fascismo dei consumi» (Pasolini) apre la strada a nuovi, più letterali,  fascismi: ebbene, mai come oggi è chiaro che se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo prima cambiare noi stessi.

Imparando innanzitutto a tornare umani: come provavano a fare – tra castelli, valli, pievi e città – questi nostri padri: che sentiamo di amare, oggi come non mai.

(Tomaso Montanari)


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