Finestre sul divano

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Oggi volevo parlare di Alzheimer, ma non mi dilungo, perché bisogna esser “brevi”, come mi diceva la signora Vera dopo anni e anni di terapia. Quando usciva da un periodo critico diceva: “Finalmente ho imparato, quando discuto con mio marito non la faccio più tanto lunga, dico quel che ho da dire e mi fermo.”
A proposito di Alzheimer sarò breve: o si è bendisposti alla ricerca di quello che proviamo emozionalmente dinanzi a qualcuno devastato dalla morte progressiva dei neuroni, o non lo si è. Se lo si è fino in fondo, se ne può parlare senza il bisogno di tanti testi psicometrici. Questa mattina un amico mi ha inviato sul cellulare la foto di una donna nuda in piedi a gambe chiuse. Giusto sotto la prominenza pubica, in quel magico incavo tra le cosce quando sono allineate, filtrava un raggio di luce.
Il raggio di luce nell’Alzheimer continua a filtrare tra talamo e ipotalamo. Di questo si tratta.
Ieri ci ha lasciati Sepulveda, lo scrittore cileno amico di Allende. Non si può non ricordarlo. Ha lasciato detto che le sue ceneri dovranno essere sparse nella parte meridionale del Cile, dove le acque dell’oceano sono ghiacciate. Un modo di conservarle, ho pensato, una dispersione duratura.
A noi basta l’Adriatico, dove il mio amico Carlo, pilota d’aereo, accompagnò Lora, la moglie di Tonino Guerra, per gettare le ceneri della mamma russa al largo di Rimini. Il vento gliele restituì in faccia, per cui Tonino disse: “La s’è magnè la su ma.” Tonino era rock, avrebbe detto Celentano, ne era convinto anche Sepulveda, che venne a Pennabilli per fargli visita nella sua tana.
Ho sempre pensato che Tonino fosse un poeta e uno scrittore più sudamericano che russo. Sepulveda, come anche Gabriel Garcia Marquez, se n’era accorto, ed erano diventati compañeros. Ci provava, Tonino, a vestire come i russi, lo si vedeva d’inverno con il colbacco, ma la sua divisa erano i gilet di Missoni. Italiani come gusto, ma peruviani come rimando.
Ero presente quella volta a Pennabilli, quando venne il cileno, ma devo essere sincero: non ricordo nulla di quello che fu detto. Penso di essere, per certi versi, più vicino a New York, una città che non ha molto a che vedere con gli Appennini e con le Ande. Ma oggi mi si apre il cuore quando penso a uno stadio trasformato in un recinto per futuri desaparecidos. Le ceneri di Sepulveda mi ritornano in faccia.
Ieri ho visitato un signore colpito da ictus circa un anno fa. È migliorato, ma ci sono dei buchi di memoria e dice cose strampalate. Una cosa, invece, gli è chiara: la casa dove è nato e dove ha trascorso l’infanzia. Ora abita a Santarcangelo, ma un giorno sì e uno no deve ritornare a casa. Se non lo si asseconda, diventa violento e non è facile gestirlo. La casa natale si trova vicino all’autostrada, a pochi chilometri da Santarcangelo, là dove inizia la Pianura Padana. Niente a che vedere con le Ande, ma il richiamo è lo stesso di Sepulveda: il padre e la madre, le origini.
In fondo, quello delle ceneri della madre di Lora non è stato un incidente, si è compiuto in quell’attimo il cannibalismo che è alla base del rapporto dei genitori con i figli, in particolare della madre con la figlia. È comprensibile che non faccia più parte dei nostri riti, ma non so se siamo più saggi noi o i selvaggi del film che ho visto l’altra notte, ambientato in una foresta sudamericana. Noi ci mangiamo a vicenda compunti, somigliamo ai coronavirus. Una bella abbuffata di gregge genitoriale sarebbe liberatoria, ma ne farebbero le spese soprattutto gli anziani e qui torna in ballo l’età avanzata. Alzheimer è una parola molto attrattiva, come Sepulveda, del resto, un nome che suona bene. Le malattie che hanno un bel nome fanno ormai parte del linguaggio comune. Se uno dice: “Sono sclerato”, l’espressione lascia perplessi, è un modo di dire gergale e anche un po’ volgare. Se invece si dice: “Ho l’Alzheimer”, lo si accetta di buon grado, perché è un modo elegante di esorcizzare il male.
Tra un po’ si dirà: “Ho il coronavirus” per dire che si ha raffreddore. Speriamo che arrivi presto quel giorno.


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