Senza famiglia

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di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

La famiglia – considerata dagli antropologi un “universale culturale” – fino ai suoi albori si è conformata come un’unità produttiva e riproduttiva. Al giorno d’oggi molte parole vengono spese per definire i “modelli” possibili di famiglia. Ma come sarebbe il mondo se…

È immaginabile un mondo senza più un modello dominante di relazione familiare? La famiglia è quello che gli antropologi chiamano un universale culturale: per quanto differenti, un qualche tipo di famiglia c’è in qualsiasi tipo di società. Di solito, con una conformazione che nei manuali di sociologia viene riassunta così: un gruppo di persone legate da vincoli di discendenza, matrimonio, affinità o adozione. Una definizione sufficientemente generica da essere inclusiva, aperta a molti modelli differenti. Eppure, oggi, incapace di descrivere quanto sta succedendo.

Non è nemmeno più lecito parlare di famiglia, al singolare. Le famiglie sono così tante da costituire un insieme plurale di modelli familiari tra loro molto diversi. Ma, cosa interessante, non mutuamente escludentisi. Di fatto ciascuno di noi può attraversare differenti modelli familiari nel corso della propria biografia: nascere in una famiglia “tradizionale”, regolarmente coniugata, ritrovarsi senza un genitore a causa di separazione o divorzio, vivere in una famiglia scomposta e dislocata in luoghi diversi, ritrovarsi un nuovo genitore convivente, trovarne un altro ancora nel partner del genitore non convivente, poi vivere da solo, attraversare una o più convivenze, eventualmente sposarsi, avere figli, e ricominciare la sequenza.
Con tutte le variabili possibili: coppie dello stesso sesso, con o senza figli (peraltro diversamente ottenuti dalle famiglie omogenitoriali: adozione, concepimento con gestazione altrui, forme diversificate di inseminazione artificiale), nascite fuori del matrimonio e senza partner riconosciuti, matrimoni senza sessualità e sessualità libera al di fuori (o dentro) il matrimonio, long distance relationship (partner o coniugi non conviventi stabilmente, con o senza figli: in aumento a seguito della crescente mobilità e delle migrazioni), coppie miste dal punto di vista della nazionalità, della religione o del colore della pelle, fino alle convivenze tra pari che possono diventare forme parafamiliari relativamente stabili (dalle comunità religiose ai co-housing tra giovani, tra famiglie e tra anziani), e alle persone che vivono da sole (che, sì, anch’esse sono considerate famiglie – le famiglie unipersonali, un interessante e accettato ossimoro – e costituiscono una quota crescente di popolazione, particolarmente nelle città).

Ormai l’Istat è arrivato a distinguere le famiglie senza nucleo, con un nucleo o con due o più nuclei: il che dà l’idea di quanto sia obsoleta, e non più descrittiva del reale, la stessa espressione “nucleo familiare” – che dava per scontato fosse uno, né più né meno. E, per dare un’idea dei cambiamenti in atto, le famiglie senza figli sono il 31% del totale, più di quelle con due figli, che sono il 26%.

La famiglia dunque, che fin dagli albori della sua storia era una unità produttiva (tutti i membri lavoravano assieme, quale che fosse il lavoro – dalla caccia e raccolta alla coltivazione all’allevamento, fino alle botteghe artigiane e alle aziende familiari – per contribuire al benessere familiare) e riproduttiva, ha quasi smesso di essere la prima cosa (unità produttiva), e sta progressivamente staccando la seconda (unità riproduttiva) dalla sua “necessaria” ragion d’essere (ci si può riprodurre al di fuori della famiglia – e la tecnologia aiuta in questo senso, ma ci sono anche mezzi più tradizionali – o non riprodursi al suo interno).

La crescente mobilità, e lo stesso allungamento dell’aspettativa di vita (potrà durare, sarà davvero sostenibile, l’idealtipo del matrimonio monogamico, quando vivremo 120 o 140 anni? – E non manca molto…), sta producendo un ritorno di forme comunitarie, eventualmente segregate per età: tipicamente, i co-housing per anziani (ma ci sono sempre più anche tra giovani in mobilità), su base volontaria, o la convivenza in strutture di appoggio, maggiormente necessitata, specie se diminuisce il grado di autosufficienza.

Vivere in comunità, in una comune, se si vuole, non è più quindi una cosa da hippie, una forma trasgressiva di contestazione della famiglia borghese, ma sempre più un nuovo bisogno, e non di rado una nuova necessità. Che, in futuro, potrà vedere l’arrivo di nuove “convivenze”, anche a scopo affettivo e di compagnia: i robot domestici, già in sperimentazione in Giappone – di cui Siri e Alexa sono solo gli ancora rustici antesignani.

Da confronti


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