Turchia, la sentenza Cumhuriyet chiama il giornalismo libero all’azione. Sostenere i colleghi turchi dovere morale e etico per tutti noi

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Istanbul è una città che oscilla fra tradizione e modernità, fra costumi orientali e stili di vita occidentali. 

Passeggiando lungo Istikal street si incontrano gruppi di donne, l’una accanto all’altra, con il capo velato o completamente coperte e ragazze vestite alla moda come in un qualsiasi paese europeo.

Il volto che mostra la città simbolo della Turchia ci racconta di senso civico e rispetto laico verso tutti i modi di sentire e di vivere che Ataturk, padre fondatore della repubblica turca, ha lasciato in eredità ai governi che a lui si sono succeduti. Un’immagine  cara al presidente Recep Tayyip Erdogan, che cerca di propagandare a dispetto dello Stato di emergenza in atto nel Paese dallo sventato golpe del luglio 2016. 

Mentre la scure della giustizia si abbatte sui giornalisti non allineati accusati di supporto al terrorismo, dai fratelli Ahmet e Mehmet Altan ai redattori e vertici editoriali di Cumhuriyet, e le nuove retate di presunti ‘golpisti’ portano a oltre 50 mila il numero delle persone in carcere,  a due anni dal tentativo di colpo di stato il Sultano si appresta a vincere le prossime elezioni anticipate di un anno e mezzo.

Basterebbe questo a sancire che la tolleranza e la libertà di espressione a Istanbul, come in tutta la Turchia, siano ormai un lontano ricordo. 

Con il verdetto del 25 aprile e le condanne tra i due e gli 8 anni di carcere per Akın Atalay, amministratore delegato della fondazione editrice di Cumhuriyet, storico quotidiano laico di opposizione, Ahmet Şık, Orhan Erinç, Bülent Utku, Murat Sabuncu, Kadri Gürsel, Güray Oz, Önder Celik, tutti giornalisti,  il vignettista Musa Kart, i manager Hakan Kara e Mustafa Kemal Güngör, il commercialista del giornale Emre iper e gli editorialisti Aydın Engin e Hikmet Cetinkaya, è stata confermata la morte dello Stato di diritto già decretata lo scorso febbraio con la sentenza di ergastolo per sei giornalisti tra cui gli Altan e la veterana della stampa turca Nazli Ilicak. 

Le motivazioni non sono state ancora pubblicate, ma è chiaro che i redattori e il resto del personale del più antico giornale indipendente della Turchia siano stati condannati per aver svolto il loro lavoro in piena coscienza e libertà. Si tratta di un altro evidente segnale che la magistratura turca non sia più in grado di garantire la protezione dei diritti fondamentali che  inalienabilmente comprendono la libertà di stampa, aggravando così la pressione sui media che tentano di mantenere una  propria indipendenza.

A fronte di ciò le istituzioni del Consiglio d’Europa e dei suoi Stati membri hanno finora assunto posizioni blande, senza avere il coraggio di ricordare alla Turchia il suo obbligo internazionale di rispettare e proteggere i diritti umani. L’accanimento nei confronti dei colleghi di Cumhuriyet dimostra che il sistema giudiziario turco non rappresenti più una garanzia per chiunque si ritrovi sul banco degli imputati. 

Si è trattato di un processo in cui il “crimine” contestato era quello di giornalismo libero e le sole ‘prove’ presentate dal procuratore erano articoli e prime pagine con titoli considerati di propaganda terroristica.

L’imputazione iniziale era un miscuglio di reati legati al terrorismo o connessi al tentato colpo di stato. Ma gli elementi accusatori  presentati non hanno superato i criteri, in questo caso rispettati, della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio determinando la derubricazione delle accuse che avrebbero potuto comportare pene fino ai 43 anni di carcere. 

Durante il dibattimento il procuratore ha basato la sua requisitoria solo sul cambio di linea editoriale della testata “passando da giornale di opposizione a organo di sostegno a gruppi terroristici armati” come ha scandito in aula prima di ribadire la richiesta di condanna. Nonostante i 17 mesi di procedimenti, testimonianze e prove non credibili prodotte  dall’accusa la Corte ne ha accolto la tesi e ha emesso il duro verdetto. Considerando il tempo già scontato in detenzione preventiva, al termine dei tre gradi processuali tutti dovranno tornare in prigione. Chi ha pendente sul proprio capo le condanne più dure dovrà scontare altri 5 anni di prigione. Nessuno di loro potrà viaggiare, un ulteriore tentativo di zittirli nell’arena internazionale.

Ma grazie al supporto di noi colleghi internazionali accorsi, tanti, nel penitenziario di Silivri per monitorare le udienze e dare supporto e solidarietà agli imputati, la natura politica del processo è stata illuminata a giorno. È stata chiara fin dall’inizio, un mood costante per l’intero processo.

L’incriminazione, il carcere preventivo e gli atti processuali falsati da elementi inconsistenti hanno violato i diritti umani di tutti gli imputati, inclusi quelli alla libertà di espressione, alla sicurezza e a un processo equo. 

C’e poi da considerare le conseguenze di questa sentenza. La natura simbolica di un processo contro il più importante giornale di opposizione della Turchia avrà un indubbio effetto raggelante sia sulla percezione del diritto alla libertà di espressione e,  più in generale, influirà sulla possibilità per la popolazione di accedere a informazioni e opinioni diverse.

Che la volontà fosse quella di colpire duro affinché questo caso fosse un monito per quanti fossero intenzionati a esprimersi in modo critico sull’operato del presidente Recep Tayyip Erdogan e del suo governo, soprattutto in vista del voto presidenziale del 24 giugno, è stato confermato dalla rapidità con cui si è arrivati al verdetto, prima che  la Corte europea dei diritti dell’uomo potesse  esprimersi sui casi dei giornalisti di Cumhuriyet, Murat Sabuncu e Ahmet Şık.  Ma se per loro una decisione della Cedu sarebbe ormai ininfluente per gli altri processi  potrebbe essere cruciale. Non solo per ‘correggere’ le violazioni dei diritti dei molti giornalisti che ancora languono in detenzione, ma anche per difendere l’indipendenza e l’imparzialità della magistratura stessa in Turchia. 

Il caso Cumhuriyet e altri importanti procedimenti pendenti sul capo di centinaia di operatori dell’informazione dimostrano chiaramente che il potere giudiziario in Turchia sia totalmente compromesso. C’è poca speranza, dunque, per ricorsi e appelli interni equi o rapidi per qualsiasi imputato. Liquidare in tre ore il verdetto del processo Cumhuriyet ha evidenziato quanto poco sul serio fosse stato preso in considerazione il caso che aveva una fine già scritta. 

I 17 mesi e le 7 udienze di questo lungo dibattimento processuale totalmente infondato hanno inoltre pregiudicato l’azione del giornalismo indipendente, nel momento in cui oltre il 90% dei media è sotto l’influenza del governo.

Alla luce della mancanza di volontà da parte della magistratura di assolvere al mandato di controllo e di ‘bilancia’ dei poteri dello Stato, la Corte europea è chiamata, ora più che mai, a svolgere il suo ruolo di custode dei diritti umani in Europa e a esprimersi rapidamente suo casi di mancata libertà di espressione ancora in sospeso ponendo così  un limite alle gravi violazioni che si verificano in Turchia.

Noi giornalisti liberi abbiamo invece l’obbligo di chiedere alle istituzioni del Consiglio d’Europa e ai suoi Stati membri di ricordare al governo turco il suo obbligo internazionale di rispettare e proteggere i diritti umani, in particolare il diritto alla libertà di espressione e a un processo equo, e di dare priorità a questi temi nelle loro relazioni con la Turchia, sia nei forum bilaterali che multilaterali. Tutti noi abbiamo il dovere etico e morale di sostenere i nostri colleghi turchi e a dare spazio alle voci di dissenso che vengono represse da un regime che ormai non riesce più a nascondere il suo reale volto.

 


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