La lezione di giornalismo e di vita di Anna Politovskaya “donna non rieducabile”

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Non poteva rimanere viva Anna. Il 23 marzo 2001, il giornale di Sakhalin, ospita una lettera aperta firmata da “un gruppo di militari del 68° Corpo d’armata russo in Cecenia” e indirizzata “alla pochissimo stimabile giornalista Anna Politkovskaya”: «Lei non è la prima né sarà l’ultima ad offendere le forze armate russe. Abbiamo sentito il bisogno di scriverle, nonostante il disprezzo, non per rispondere al fatto che ci sputa addosso ma perché ci urta che lei sia considerata da molti una gran cronista. Lei ci accusa duramente di averla arrestata ad un posto di blocco nel febbraio scorso.
Bene. È possibile che lei sia stata arrestata con durezza, forse con violenza, ma le chiediamo: lo sa che qui c’è la guerra? Pretende le buone maniere? Se voleva essere trattata con i guanti non doveva venirsene in Cecenia. Se è davvero una gran giornalista doveva sapere che la guerra ha le sue regole e chi le infrange non venga poi a piangere come fa lei nei suoi pezzi. Non doveva venire quaggiù a infamare chi rischia la vita per evitare che la sua casetta salti in aria a Mosca. Additando noi lei sta dalla parte opposta a noi. Quindi è un nemico, signora cara. Sappia che qui siamo spietati contro i nemici, e continueremo ad esserlo. Non volendo firmarci di persona, sappia comunque che siamo un gruppo di ufficiali di stato maggiore».

È ferma e decisa la voce che l’attrice Ottavia Piccolo presta ad Anna quando legge la risposta che, sullo stesso giornale, esce tre settimane dopo firmata dalla giornalista della Novaja Gazeta:
“Agli anonimi ufficiali di stato maggiore del 68° corpo d’armata russo”: «Gentili signori, conoscete chi sono nome e cognome, perché non mi nascondo dietro l’anonimato e non cammino in Cecenia con il passamontagna nero fisso sul viso come fanno le truppe russe per un motivo che si ignora. Voi mi scrivete che getto fango, io mi limito a raccontare, se vedo che le casse pubbliche finanziano violenze e torture, voi dovete risponderne. Mi scrivete che rischiate la vita per la Russia. Io vedo che molti di voi se ne stanno ben protetti nei campi mentre gli aerei fanno saltare villaggi e paesi. I giornali russi sono pieni ogni giorno di racconti di eroi e martiri, io ho chiesto ai militari russi di farmi da scorta in zone di pericolo e nessuno di voi si è mai mosso. Ho visto invece i nostri militari saccheggiare gli uffici postali e spedire i soldi a Mosca dentro le bare dei soldati morti. Ho visto chiedere riscatti per restituire mogli o figli rapiti e tenuti nei campi. Ho visto e sentito di fosse dove si tengono al sole i prigionieri. Mi dite che sarei una nemica, e per questo mi minacciate perfino dalle pagine di un giornale. Rispondo che sono una nemica, è vero. Nemica di un esercito di criminali raccattati nelle galere e nella malavita russa. Nemica di chi stupra, saccheggia e ruba. Ma se siete davvero fieri di quello che fate, se siete convinti di essere nel giusto allora benissimo. Togliete il passamontagna. Basta con l’anonimato, guardatemi negli occhi e ditemi che ho torto. Devotamente. Anna Politkovskaya».

Non poteva rimanere viva Anna.

La minacciosa lettera degli ufficiali russi risale all’inizio del secondo anno dell’era Putin: il primo aveva contato 32 giornalisti vittime di omicidi, conflitti a fuoco, attentati terroristici in Russia, e solo 3 processi aperti (dati ufficiali della Federazione internazionale dei giornalisti). Alla fine di quel 2001 erano stati 22 e un solo processo aperto.

Sul palco del Teatro Archivolto di Genova, venerdì 4 novembre, Ottavia Piccolo per un’ora e mezza regge con bravura, appoggiata dal vivo solo dall’arpista Floraleda Sacchi, lo spettacolo di Stefano Massini, regia di Stefano Piccardi, prodotto dal Centro d’Arte Contemporanea Teatro Carcano. In “Donna non rieducabile”, scritto con i testi originali della giornalista russa uccisa nell’ascensore di casa sua a Mosca il 7 ottobre 2006, con 4 colpi di pistola – una Makarov PM, usata spesso per i delitti su commissione e lasciata accanto al cadavere con 4 bossoli – dopo anni di minacce, fermi di polizia, interrogatori, arresti, galera, scorre la vita di una donna coraggiosa e di una professionista indomita.
Sul filo dei suoi reportage, eccola soprattutto in Cecenia, a difendere la popolazione dai soprusi dell’esercito russo e delle forze operative locali fedeli a Mosca.

Kurcialov, 5 agosto 2006, cronaca di un barbaro atto dimostrativo con esposizione in piazza della testa mozzata, gocciolante di sangue, di un terrorista.
Grosnij, 27 dicembre 2002, cronaca del più grave attentato kamikaze di ceceni contro ceceni, con un camion imbottito di esplosivo che si schianta contro il palazzo del governo: Anna/Ottavia fanno rivivere con grande impatto emotivo cosa sia una carneficina con “numero vittime non accertato”.
E poi il tentativo di avvelenamento subito mentre nel settembre 2004 cercava di raggiungere in aereo l’Ossezia del Nord, Russia, dopo la strage nella scuola numero 1 di Beslan, e ancora anni di morti, stupri, violenze, rapimenti, saccheggi, orrori, soprusi descritti tenendo fede a quelli che sono sempre stati i principi della professionista Anna Stepanovna Politkovskaya: «L’unico dovere di un giornalista è descrivere quello che vede».

Non poteva rimanere viva Anna.

Circolare interna dell’Ufficio di presidenza russo firmata da Vladislav Surkov: «I nemici dello Stato si dividono in due categorie: quelli che si possono far ragionare e quelli incorreggibili. Con questi ultimi non si può ragionare. Ciò li rende non rieducabili. E necessario che lo Stato si adoperi con forza per bonificare il territorio da questi personaggi non rieducabili. Anna Politkovskaya è donna non rieducabile».

«Mi chiedono la mia opinione, cosa penso su questo e su quello. Sono stanca. Io non scrivo mai pareri, né commenti, né opinioni. Sono una giornalista, non un giudice e nemmeno un poliziotto. Io mi limito a raccontare i fatti, i fatti come stanno. Sembra la cosa più facile, invece qui è la più difficile, è un prezzo enorme. È che non fai più un mestiere, ma combatti una guerra. Lotti, ti senti in lotta, e io sono stanca. Non impaurita, scoraggiata. Stanca. Stanca di leggere sui giornali politici che sono una pazza. Politkoskaya la schizofrenica, la paranoica. Sono stanca di spiegare ai miei figli perché chi scrive la verità è un mostro e chi scrive menzogne fa carriera, stanca di ricevere dalle 10 alle 15 minacce di morte alla settimana. Mi arrivano sui miei computer, a volte al telefono.
Stanca di sentirmi una criminale. Ogni volta che esce un articolo vengo convocata in procura, fra ladri e delinquenti, che sono lì per rapina, per stupro, per furto… Io per giornalismo.
I soliti corridoi, gli uffici, le scrivanie. Entro, mi siedo. La domanda è sempre la stessa: perché ha scritto cose false, chi le ha dato queste informazioni? Segue l’interrogatorio, due, tre ore, quattro. A volte sono stata trattenuta, a volte arrestata. Sono stanca, ho spiegato ai miei figli, perché passo la notte in galera. Stanca di pensare che l’informazione libera qui non esiste. Il 90% dei giornalisti, in Russia, ha una tessera politica, e allora non sei un giornalista, sei un portavoce.
Così la stampa si divide in chi è per la Russia e chi non lo è. Se lo sei dopo 5-6 anni ti fanno deputato, se non sei per la Russia non devi fare il giornalista. La tua è “propaganda contro lo Stato”. Punto. La propaganda contro lo Stato si punisce con la morte. Punto».

Non poteva rimanere viva Anna.

Dopo il suo assassinio la polizia sequestra il computer e tutto il materiale della sua ultima inchiesta, pronta per la pubblicazione, sulle torture in Cecenia. Tutto sequestrato, inchiesta dichiarata non pubblicabile fino a data da definire. Sul suo giornale escono solo gli appunti non scoperti.
Fra le mille persone che partecipano ai suoi funerali, il 10 ottobre nel cimitero Troekurovskij a Mosca, nessun rappresentante del governo russo, dei giornali di regime, dei partiti di governo.
Lo spettacolo si chiude con una frase: «Uno dei più importanti uomini delle istituzioni, alla domanda “come commenta la morte di Anna Politkovskaya?”, ha risposto: “Mi dispiace, non so chi sia”».

Applausi, cala il sipario.

Il presidente Putin – un nome che durante tutto lo spettacolo rimane sullo sfondo ma non risuona mai – per la verità, fece meglio: «Era ben conosciuta fra i giornalisti, gli attivisti per i diritti umani e in Occidente. Comunque, la sua influenza sulla vita politica russa era minima. Il suo omicidio ha fatto più danni delle sue pubblicazioni». In quell’anno i giornalisti uccisi furono 26. Trecento dal 1993 al 2009.

Fonte: Abanews


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