31% di fiducia nella magistratura: complimenti!

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Tra le statistiche sulla fiducia nelle istituzioni che ogni fine anno Ilvo Diamanti dispensa dalle pagine di Repubblica, spicca il 31% di gradimento per la magistratura, il terzo pilastro dello Stato moderno concepito da Montesquieu. Il trenta per cento deve ritenersi un risultato soddisfacente per le performance offerte dalla magistratura nel 2015.

Non si tratta solo di ricordare i casi dei giudici Saguto di Palermo e Scognamiglio di Napoli, unificati dalla cifra “tengo famiglia”. E neppure di sottolineare l’impossibilità di far intendere come normale il caso del Procuratore Capo di Arezzo quale consulente della Presidenza del Consiglio: un’istituzione politica di parte, sostenuta costituzionalmente dalla fiducia di una maggioranza cui si contrappone un’opposizione. Chissà come si sente adesso un imputato di Arezzo simpatizzante, per esempio, di Fratelli d’Italia… Eppure una simile consulenza schierata politicamente è stata incredibilmente avallata dal CSM che, pure, dovrebbe avere in massima considerazione l’imparzialità della magistratura.

E non è neppure il caso di richiamare l’altra assurda vicenda del magistrato in pose erotiche sui social network di cui rumoreggia l’intera collettività di Lucca. Sarà pure un fotomontaggio, come dice l’interessata e ci sta pure in una terra famosa per gli scherzi come la Toscana, ma resta l’irriverenza per quella magistratura che, evidentemente, non ha meritato maggiore stima e rispetto.

Qui si tratta, invece, di ricordare le sconfitte della magistratura nel caso Mannino, nel caso Penati, nel caso di Paolo Ligresti per rimanere ai più recenti e in tutti quegli altri casi – che sono la maggioranza secondo le statistiche diffuse in varie inaugurazioni degli anni giudiziari – in cui le condanne sono superate dalle assoluzioni e dalle prescrizioni che spesso mascherano assoluzioni impronunciabili, dato che il calendario delle udienze lo fa il tribunale e non l’imputato.

Simili deludenti risultati, peraltro, concludono annose indagini condotte senza alcun limite di mezzi e di tecnologie, con costi a carico della collettività rimessi, secondo legge, a quegli stessi magistrati che ricercano le prove a supporto delle loro personali intuizioni e convinzioni che, in tal modo, vengono sublimate al rango di tesi accusatorie.

Tra questi costi non possono certo trascurarsi quelli delle intercettazioni e quelli delle consulenze tecniche: due strumenti investigativi che non risultano sempre e solo strumentali alla ricerca della verità.

Si prenda il caso Cucchi. La prova principale della seconda inchiesta sembra proprio essere l’intercettazione di una telefonata che la moglie fa ad uno dei Carabinieri che furono coinvolti nei primi momenti dell’arresto del povero geometra romano. Nell’intercettazione che tutto il pubblico di Internet ha potuto ascoltare (ma non c’era una volta il segreto istruttorio?) la voce del Carabiniere nega con veemenza tutto ciò che la moglie insinua senza, peraltro, mai fare il nome di Cucchi. Come può dirsi una prova “principe”? Oltretutto pare che i due interlocutori dell’intercettazione fossero già all’epoca della telefonata intercettata in pessimi rapporti coniugali. È un documento che, inteso obbiettivamente, suscita più dubbi di quanti non ne sciolga.

Ma altrettanto perplessa è quella consulenza medica della prima parte dell’inchiesta da cui emergeva che il povero Stefano Cucchi fosse morto unicamente per un’inedia trascurata dai medici dell’Ospedale Pertini di Roma: convincente, anche per il profano, come l’affermazione che Gesù morì sulla croce per raffreddore. Benedett’uomo! Si sta fermi su una croce mezzi nudi in primavera per ore e ore in una notte di temporale?

Eppure su quella consulenza si è costruito il primo troncone del processo Cucchi sviluppatosi per ben due gradi di giudizio. E ancora non è finita perché assai si discute di un componente del collegio peritale che dovrebbe rinnovare gli accertamenti. Né si può trascurare che sopra simili intercettazioni e consulenze si costruiscono non di rado vere e proprie carriere anche politiche.

Vengono dalla magistratura (solo inquirente: sarà un caso?) molti dei politici più in vista, da Piero Grasso ad Anna Finocchiaro, alla Ferranti, a Casson, a Nitto Palma. E che dire delle rapide quanto effimere carriere dei Di Pietro e degli Ingroia?

Nel frattempo la giustizia non dà risposte in tempi accettabili né nel settore civile, né in quello penale. In quello amministrativo, addirittura, c’è un’apposita legge che impone, dopo cinque anni di permanenza del fascicolo in attesa di decisione, di mandarlo direttamente al macero se la parte non dichiara di mantenere interesse alla decisione nonostante il lustro trascorso. Ecco perché quel trenta per cento di fiducia nella magistratura rilevato dalle statistiche sorprende positivamente gli addetti ai lavori.

Per un’inchiesta “Mafia capitale” che corre veloce grazie all’onda mediatica, milioni di truffe non si perseguono perché si prescriverebbero assai prima di arrivare al dibattimento ed i processi per furti e rapine si risolvono spesso in un viavai di carte da un ufficio ad un altro, tanto che gli stessi imputati vengono invitati dagli avvocati a non comparire in udienza tralasciando altre occupazioni ritenute più utili.

Dire che la giustizia è malata è una finzione, una bugia per ingannare gli onesti e la responsabilità è proprio di quella magistratura che su qualche foglio di giornale viene presentata come baluardo contro i torti e, all’atto pratico, concede uno sfratto dopo anni dalla prima istanza, un recupero crediti dopo dieci anni dal pignoramento, risarcimenti irrisori per lesioni permanentemente afflittive.

Uno degli aspetti più perniciosi dell’attuale immagine della magistratura è quella divisione tra decidente ed inquirente di cui si occupa chi sostiene la divisione delle carriere. In realtà non appare corretto, specie dopo la riforma del codice di procedura penale del 1988, che un magistrato, figura percepita dalla collettività come “arbitro imparziale”, si trasformi in “parte” all’interno di un processo contrapposta all’avvocato difensore dell’imputato.

Il magistrato del pubblico ministero finisce col rivestire un ruolo settario che nuoce gravemente all’immagine di imparziale distacco ed equilibrio con cui è percepita la magistratura dal pubblico. Il pubblico ministero, come parte del processo, può vincere o perdere e, quando perde, trascina nel suo errore l’intero corpo della magistratura al quale appartiene. Tanto più che la percezione della sconfitta si acuisce nei cittadini che osservano la contiguità, anche fisica e logistica, degli inquirenti che esercitano sotto il tetto del medesimo tribunale in cui svolgono la loro funzione i magistrati decidenti offrendo così l’immagine di un condominio pubblicistico rissoso come quello dei privati.

Assai meglio sarebbe scindere definitivamente i compiti: da una parte la magistratura, interamente decidente e, quindi, distaccata, terza ed imparziale rispetto a tutti gli affari giudiziari e, dall’altra parte, il ruolo di accusatore affidato all’avvocatura dello Stato che già si occupa degli affari civili ed amministrativi nell’interesse pubblico. Né si dica che ad una simile costruzione giudiziaria sarebbe d’ostacolo la soggezione della polizia giudiziaria all’avvocatura come adesso lo è al pubblico ministero.

Infatti, la pubblica accusa esercitata dall’avvocatura dello Stato dovrebbe illustrare al magistrato preposto i motivi per cui intenderebbe perseguire taluno spiegando il percorso istruttorio che intenderebbe seguire chiedendo a tal fine la disponibilità della più idonea polizia specialistica. Il magistrato, vagliate le richieste, dell’accusa, potrebbe accordare, limitare o negare l’accesso alla polizia giudiziaria. Allo stesso modo l’indagato, una volta raggiunto dall’atto introduttivo del processo a suo carico, potrebbe rivolgersi al magistrato chiedendo il supporto della polizia giudiziaria per raccogliere le prove a proprio discarico ove non preferisse (o non avesse i mezzi economici per) rivolgersi a strutture investigative private.

Il processo che deriverebbe da un simile sistema sarebbe molto più equilibrato di quello attuale in cui il magistrato dell’accusa si presenta ai condomini decidenti dello stesso tribunale indicando quali testimoni a favore delle sue tesi uomini in divisa abituati al ruolo ed a rispondere con fermezza ed a tono alle domande, mentre i testi dell’imputato provengono quasi sempre dalla strada e vengono chiamati a rispondere a distanza di anni senza il supporto scritto di rapporti e referti ai quali ancorare i propri ricordi.

Inoltre il magistrato dell’accusa può avvalersi dei docenti di più chiara fama quali consulenti a supporto delle sue tesi non avendo i limiti di spesa che, invece, quasi sempre condizionano la scelta del consulente della difesa. Sono queste fortissime disparità tra le posizioni dell’accusa e della difesa che nuocciono alla credibilità del prodotto reso alla collettività dalla magistratura e, in definitiva, ne ledono irreversibilmente il prestigio e l’imparzialità.

Se, nonostante tutto, per il 31% dei cittadini la magistratura merita ancora fiducia, è sicuramente un risultato di cui gli ermellini possono rallegrarsi.


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