2015: sbagliare non è più ammesso

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2015: che anno sarà? Sarà senz’altro un anno difficile e pieno di insidie, come si intuisce fin dai primi giorni, con le borse europee che crollano a causa delle incertezze legate al futuro della Grecia e al calo repentino del costo del petrolio e la disoccupazione che in Italia arriva a sfiorare il 14 per cento, superando ampiamente il 40 fra i giovani. L’Europa è in deflazione, la Germania è una locomotiva in panne e la Francia è sconvolta da un’ondata di terrorismo di matrice islamica che finirà col portare altra acqua al mulino già iper-attivo del Front National di Marine Le Pen.

D’altronde, è noto a tutti che nei momenti di crisi e disperazione collettiva è una certa destra ad avvantaggiarsi: populismo, qualunquismo, paura dell’altro e del diverso, chiusure pregiudiziali e rifiuto del confronto sono tutte caratteristiche proprie di quella politica “di pancia” che dilaga nelle fasi storiche in cui la politica “di testa” si rivela incapace di riformarsi e offrire soluzioni concrete che non siano la conservazione miope di uno “status quo” insostenibile, l’arroccamento su posizioni oramai anacronistiche e l’immobilismo capace unicamente di produrre paralisi e altro malcontento. Il che, per converso, rischia di condurre al potere o la destra xenofoba e semi-fascista di cui abbiamo già dato conto o uno strano miscuglio di destra e sinistra che finisce col non sapere di niente e col non produrre nulla di buono, essendo basato unicamente su personalismi di varia natura, improvvisazione, giovanilismo, slogan, frasi fatte, luoghi comuni e la rapidità come presunta panacea di tutti i mali. Entrambi i rimedi, come potete ben immaginare, sono peggiori del male.

A tal proposito, è bene chiarire che il 2015 sarà un anno cruciale soprattutto per la sinistra, la quale dovrà ridefinire la propria missione e la propria ragione di esistere e fornire una nuova proposta politica e nuove prospettive a un’ampia parte del Paese che, dopo la mutazione genetica apportata da Renzi all’interno del PD, si domanda da tempo se sia ancora possibile far tornare il partito a sinistra o se sia indispensabile dar vita ad un nuovo soggetto politico. Le prossime settimane, in tal senso, saranno decisive.

La peculiarità dei dodici mesi che ci apprestiamo a vivere è che, salvo imprevisti e scossoni di notevole entità, le sorti dell’Italia e dell’Europa si compiranno entro marzo: a gennaio, vedremo se Draghi darà vita al “quantitative easing”, da tempo atteso dai paesi più fragili e indebitati per ricevere una boccata d’ossigeno, essenziale per economie ormai condannate alla stagnazione e a una recessione che potrebbe divenire “secolare”; sempre a gennaio, vedremo se in Grecia si compirà il miracolo della vittoria di Tsipras, ossia di un giovane esponente politico che ha avuto il coraggio di ricostruire una sinistra degna di questo nome sulle macerie del defunto Pasok e del massacro della Troika e di mettere subito in chiaro che intende restare nell’euro ma rinegoziando i trattati e restituendo dignità e speranza al suo popolo; ai primi di febbraio, con ogni probabilità, sapremo chi sarà il successore di Napolitano e quale sarà il destino delle riforme istituzionali e costituzionali avviate nei mesi scorsi; a marzo, conosceremo il giudizio definitivo della Commissione europea sulla nostra Legge di Stabilità e sapremo se i mirabolanti annunci di Renzi potranno dar vita alla ripresa che tutti attendiamo o se rientreranno anch’essi nel novero delle promesse tradite.

Uno sguardo, come detto, andrà rivolto, per forza di cose, a ciò che avverrà nel resto del mondo: dalla Gran Bretagna, dove il conservatorismo estremo e deleterio dell’UKIP rischia di saldarsi con quello garbato, ma non meno dannoso, dei Tories, al Medio Oriente e all’altra sponda del Mediterraneo, dove lo Stato islamico è ormai una realtà consolidata e gode del consenso di gran parte della popolazione locale, in quanto è visto come l’unica forma di riscatto possibile dopo anni di oppressione occidentale (è una versione per noi aberrante e inaccettabile ma è così). In entrambi i casi, i grandi assenti sono la sinistra e le forze moderate: in Gran Bretagna, il Labour si dibatte fra i cascami del terzaviismo fallimentare di Blair, capace unicamente di correggere, quando non di peggiorare, lo spartito della destra, e le aspirazioni di leadership di un Miliband non sufficientemente convincente, non in grado di imprimere una sterzata a sinistra e non considerato autorevole né da chi vorrebbe un partito che tornasse a fare il suo mestiere né dai nostalgici di un tempo ormai alle spalle; in Medio Oriente e nei luoghi delle primavere arabe, alla corruzione dei dittatori che furono si è sostituito il caos più assoluto, con l’Egitto vittima di un colpo di Stato militare e la Libia in preda all’anarchia e, per l’appunto, alle dilaganti milizie dell’ISIS.  Si salva in parte la Tunisia, ma quanto reggerà la rivoluzione democratica nel paese da cui tutto è cominciato?

Negli Stati Uniti, invece, è iniziato il penultimo anno della presidenza Obama, il quale può rivendicare il pieno rilancio dell’economia e una crescita come non la si vedeva dal 2003 ma, al tempo stesso, non gode più della fiducia e della stima di un popolo che non sopporta le leadership lunghe e in cui, dopo un po’, prevale la volontà di cambiamento. Un’“anatra zoppa”, si è detto, anche se a nostra impressione, almeno per quanto riguarda i diritti civili, il Presidente è riuscito ad ottenere risultati migliori adesso di quando i democratici erano sulla cresta dell’onda e controllavano entrambi i rami del Parlamento. La sensazione di molti analisti è che Obama stia lavorando per il dopo, per lanciare la candidatura della sua ex avversaria Hillary Clinton ma sarebbe sinceramente triste se dovesse riproporsi una sfida al vertice fra la moglie di Bill e il figlio di George Bush senior, nonché fratello di George Bush junior: una sclerosi politica intollerabile per un Paese così amante del cambiamento e dell’innovazione, fino a farne quasi una religione.

Occhio, infine, a quanto sta accadendo in Asia e in Sudamerica, ovvero in gran parte dei cosiddetti BRICS: per ora, a parte ricordarci ogni giorno la provenienza del Papa venuto “dalla fine del mondo”, questi paesi ci dicono poco ma Brasile, Cina e India sono tre delle nazioni destinate a dominare il Ventunesimo secolo, e sarà il caso di non sottovalutarne né le esigenze né le aspirazioni né le opportunità che potrebbero offrirci, in una fase nella quale la vecchia Europa, stremata dalla crisi, sembra saper parlare solamente col linguaggio dell’odio che la attraversa da nord a sud.


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