L’Europa e l’obiettivo occupazione. Qualche proposta per passare dalle parole ai fatti

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Numerose dichiarazioni in sedi Europee si sperticano in questi giorni a sottolineare come d’ora in poi l’obiettivo della crescita occupazionale debba  costituire la priorità dei prossimi anni. Come tutti sanno, c’è voluto molto tempo prima che l’obiettivo occupazionale fosse riconosciuto come un obiettivo della politica economica europea. Il primo passo fu costituito dal ben noto Libro Bianco di Delors (1993), ma fu necessario attendere fino al trattato di Amsterdam del 1997 perché qualche azione verso la crescita occupazionale fosse inclusa nei programmi dell’Unione. Con la Strategia di Lisbona (2000) questo obiettivo venne formalizzato e dotato di definizioni quantitative. Tuttavia, la formulazione di questo obiettivo presentava due particolari debolezze. In primo luogo essa era basato su una visione della crescita dell’occupazione come un problema esclusivamente di offerta, così che le politiche suggerite ignorarono completamente il lato della domanda. In secondo luogo, agli obiettivi occupazionali venne attribuito un rango inferiore: infatti gli Stati membri non erano tenuti al loro raggiungimento, ma erano soltanto esortati a farlo. A differenza degli obiettivi di natura finanziaria, nessuna sanzione fu prevista per il caso del mancato raggiungimento di essi.

Ora, dentro la lunga crisi finanziaria ed economica, il problema della relazione tra la politica economica dell’Unione Europea e l’obiettivo della crescita occupazionale è diventato più complicato. La strategia 2020 ha posto una maggior enfasi sulla necessità di migliorare la performance occupazionale dell’Unione ed ha addirittura innalzato gli obiettivi quantitativi oltre i livelli della strategia di Lisbona. Ma, di fronte a questo, il vincolo del consolidamento fiscale è diventato più stringente (con i vari “patti” e trattati) e, ciò che è più importante, è stato unanimemente interpretato e declinato in termini di politiche recessive. In questo quadro, all’obiettivo del consolidamento fiscale è stata data priorità assoluta con l’obbligo di raggiungerlo a qualunque prezzo in termini di disoccupazione, fino al punto di considerare addirittura la recessione e la crescita della disoccupazione come una strada inevitabile per il suo conseguimento.

Si è quindi in presenza di una contraddizione che va risolta. Le dichiarazioni che attribuiscono priorità all’obiettivo della crescita dell’occupazione stridono con le politiche imposte in sede comunitaria e rischiano di rimanere ipocrite parole scritte sulla sabbia o nel migliore dei casi,  come dicono gli inglesi, puro “whishful thinking”. La governance  economica dell’Unione fa prevalere in termini assoluti gli obiettivi fiscali e gli Stati membri restano liberi di utilizzare la disoccupazione come strumento per il raggiungimento di questi. Bisogna trovare un modo per evitare questa possibilità e per rendere i governi responsabili di fronte al rispetto degli obiettivi occupazionali. Una soluzione che si può suggerire è quella di legare i due ordini di obiettivi, in modo che il raggiungimento degli obiettivi fiscali sia soggetto al vincolo di mantenere il livello dell’occupazione al di sopra di una soglia stabilita a livello europeo. Il mancato rispetto di questo vincolo dovrebbe comportare le medesime sanzioni predisposte con riguardo agli obiettivi fiscali. Questa condizione da un lato renderebbe privo di senso e inutile il raggiungimento del consolidamento fiscale attraverso la recessione e dall’altro costringerebbe gli Stati membri ad adottare politiche non recessive per il raggiungimento degli obiettivi fiscali e concrete misure espansive per l’occupazione.

Naturalmente sarebbe  necessario controllare la qualità dell’occupazione, per impedire la scorciatoia di espandere l’occupazione attraverso varie forme di lavoro precario o al di sotto di ciò che l’ILO chiama “decent work”. Di qui il secondo suggerimento: migliorare e armonizzare a livello europeo le statistiche sul mercato del lavoro;  in particolare, le definizioni di “occupazione” e “disoccupazione”, i metodi di rilevazione statistica e gli indicatori di qualità. Parallelamente a questo si rende necessario perseguire tra gli Stati membri una armonizzazione sui seguenti aspetti: regolazione del mercato del lavoro, sicurezza sociale, salario minimo e contrattazione collettiva. La prospettiva di evoluzione dell’Unione verso uno Stato Federale riceverebbe un grande incoraggiamento e un impulso in avanti da misure di questo genere.

Tali linee di azione lascerebbero ciascuno Stato membro libero di scegliere ed adottare le misure che ritiene più appropriate, date le sue specifiche condizioni economiche, per raggiungere gli obiettivi, ma ciascuno Stato membro dovrebbe rispondere del loro eventuale mancato raggiungimento. Vi è, ovviamente un grande ventaglio di misure da scegliere in proposito: dal miglioramento dei servizi per l’impiego, alla riqualificazione dei sistemi formativi, dall’incremento degli investimenti pubblici al sostegno della nuova imprenditorialità, dalla crescita della produttività alle connesse politiche  sugli orari di lavoro, dal rafforzamento della domanda aggregata alla riduzione delle disuguaglianze, e così via.

La riduzione (appena menzionata) delle disuguaglianze nella distribuzione personale e funzionale del reddito riveste un ruolo cruciale per la crescita del livello di attività economica e per l’occupazione. Azioni concrete dovrebbero essere intraprese per evitare il crearsi di diseguaglianze eccessive, piuttosto che per correggere le disuguaglianze una volta create. Tuttavia, una combinazione di entrambe le linee di azione permetterebbe i migliori risultati. Anche qui, tuttavia, è necessario dare un rilievo istituzionale e operativo a questo obiettivo, senza di che il passaggio dalle parole ai fatti non avverrebbe. Perché non incominciare quindi a rivedere il ruolo del Pil come oggi è misurato in quanto obiettivo della politica economica? Una proposta avanzata da A. Sen molto tempo fa consisteva nel pesare il Pil come è calcolato oggi con un indicatore della distribuzione del reddito. Perché non incominciare con qualcosa di questo genere?

Queste sono soltanto alcune proposte iniziali per passare dalle parole ai fatti. Anche a livello dell’Unione Europea sembra esserci molto “fluff”” non solo nelle estemporanee dichiarazioni dei funzionari e dei politici, ma anche nei documenti ufficiali. Bisogna incominciare ad esigere coerenza tra i proclami e le politiche adottate. Finora vediamo troppi politici scorrazzare impunemente nella boscaglia delle parole e farsi schermo di esse per occultare i reali percorsi. Incominciamo ad esigere un po’ di rigore.


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