Giornalismo sotto attacco in Italia

La domenica dei ripensamenti. Caffè del 6 luglio

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Non comincerò dai titoli, c’è più succo, oggi, in qualche commento e in talune interviste. Scrive Eugenio Scalfari: “Non mi sembra che per il governo italiano le cose vadano così bene come ci si aspettava e come Renzi e la banda di musicanti che accompagnano il suo piffero ci avevano fatto intendere. Non sembra a Bruxelles e neppure a Roma, tanto che lo stesso nostro presidente del Consiglio ha detto: «Attenzione. O le riforme andranno a buon fine nel tempo e nei modi giusti oppure io me ne andrò». Non è un bel modo di ragionare – commenta Scalfari – perché potrebbe darsi che sia la tempistica che le riforme volute da Renzi siano sbagliate e in quel caso sarebbe positivo avere qualcuno che le corregga nel modo più appropriato”

Il fondatore di Repubblica sarà pure diventato il decano dei gufi, ma oggi finalmente i distinguo tendono a prevalere sulle assecondanti urla di giubilo. A cominciare dal “doroteo” – definizione del Presidente del Consiglio – Orlando. Intervistato da Repubblica, titolo “Sulla giustizia nessuno inciucio con la destra”, il ministro assicura: “non faremo norme per mettere sotto schiaffo nessuno” (nemmeno i magistrati!) né per “limitare l’uso delle intercettazioni nelle indagini”. Poi sventola la frase magica: “confronto aperto in Parlamento”. Ovvero gli accordi (segreti?) del Nazareno o di Palazzo Chigi, non vincolerebbero né il ministro della giustizia e né il Pd in Parlamento.

A saper leggere suona come un distinguo anche l’intervista del Corriere della Sera al ministro del Tesoro. “Patto con la Ue sulle riforme” – recita il titolo, ma Padoan non parla né di Senato e né di Italicum, come fanno due volte al giorno i corifei del “cerchio magico” – definizione di Scalfari -. No, le riforme che contano per l’Europa sono altre, quelle del fisco e della pubblica amministrazione, eventualmente le privatizzazioni. Il re è nudo. Mancano “511 decreti attuativi delle leggi approvate”. È qui la paralisi, dice Scalfari, nell’incapacità dei governi di rendere operative le misure che il vecchio Senato approva piuttosto in fretta: meno di 2 mesi per le leggi ordinarie, 3 per quelle finanziarie, i decreti del governo in 52 giorni”.

Superiamo il bicameralismo, aboliamo – se si vuole – il Senato, ma non raccontiamo balle! La campagna contro i “frenatori” è tutta ideologica, mira a ottenere un atto di sottomissione totale, un inchino al premier rafforzato dal sì alla corbelleria del Senato Casta delle Regioni, un modo per dire che tutto è possibile nel paese della Cuccagna, retto dell’Imperatore Romano, Matteo Renzi, dal Senatore collaborazionista Giorgio Napolitano e dal Barbaro posto a protezione del confine esterno, Silvio Berlusconi. Proprio così la racconta il Fatto. Titolo: “Democrazia autoritaria”. E Travaglio: “630 deputati nominati dai segretari dei partiti più grandi, quelli medio piccoli esclusi da soglie di accesso altissime, il primo classificato (anche con il 20%) avrà il 55% e potrà governare da solo”.

Diverso lo stile di Cuperlo, ma non diverso il giudizio sulla legge elettorale approvata dalla Camera e che il Senato dovrà cambiare “Su tre punti: soglie, liste bloccate, equilibrio di genere”. Insomma Cuperlo vuole stracciare l’accordo del Nazareno, che non piace neppure ad Alfano, “cambiare le soglie, premio solo al 40%”. Mentre un giovane barbaro concorrente offre una sponda pentastellata a Telemaco Renzi, qualora si fosse stancato dei suoi partner ottuagenari: “non siamo contrari a prescindere né al doppio turno né al premio di maggioranza”.

In realtà nell’intervista di Cuperlo a Repubblica c’è un altra importante novità: “non credo che chi si batte per mantenere il carattere elettivo del Senato sia un sabotatore”. L’onore delle armi per i dissidenti? Persino Orlando concede che “la critica a singoli punti delle riforme è legittima”. Rpensamenti forse tardivi visto che per domani sera è convocato il gruppo Pd del Senato e Giorgio Tonini, per conto di Zanda, proverà a invocare la disciplina di partito al fine di impedire a Chiti di votare secondo coscienza anche in aula, dopo aver escluso Mineo  e Chiti dalla Commissione.

È un esito inaudito – persino Togliatti tollerò che Concetto Marchesi gli votasse contro sui Patti Lateranensi -, al quale si arriva per merito, o colpa piena, di personalità del Pd pre renziano.  Come lo “storico” Miguel Gotor, suggeritore della burlesca imitazione del Senato francese oggi in auge, e la “giurista” Anna Finocchiaro, secondo cui l’autonomia del mandato parlamentare non vale in commissione.

Come ho avuto modo di dire, la bizzarra esagerazione di Renzi “non lascio il paese in mano a Mineo”, mirava ad asfaltare non tanto me – non serviva tanto! – ma ben altre e più caute minoranze.

Da corradinomineo.it


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