Riflettere prima di decidere. È davvero conveniente creare una nuova casta di nominati?

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Nadia Urbinati

All’inizio il problema era il bicameralismo perfetto ora è il bicameralismo. Questa riforma si orienta di ora in ora verso un radicale rifacimento dell’assetto istituzionale della nostra Repubblica. Due principi si stanno imponendo che reinterpretano il significato della rappresentanza e del suffragio: i cittadini sono sovrani dimezzati; il voto dei cittadini serve solo a formare una maggioranza. Infatti chi vuole ardentemente questa riforma, l’ha giustificata con questi due argomenti: un Senato eletto costa troppo e rende troppo lento il processo decisionale. Sono due argomenti molto problematici e essenzialmente ideologici, il primo per lo meno volgare e il secondo insofferente per la deliberazione democratica. Entrambi sono poco convincenti e per nulla comprovati. Sui costi: la democrazia costa al suo sovrano, che è fatto di cittadini che vivono del loro lavoro. Devono pagare per le funzioni pubbliche di cui lo stato democratico ha bisogno e spetta a chi svolge quelle funzioni essere attenti a limitare i costi. L’esito di anni di mal uso e abuso delle risorse pubbliche da parte di parlamentari dovrebbe essere affrontato riscrivendo le regole relative al loro uso delle risorse non cancellando un organo eletto, ovvero facendo pagare ai cittadini decurtandoli del loro potere di elezione. Sembra che la responsabilità prima dei costi della politica stia nel potere democratico: se non si votasse si spenderebbe meno. Questo è il senso del messaggio sui costi del Senato eletto.

Circa il secondo argomento, quello delle celerità decisionale: è un fatto che nei regimi democratici la tensione tra il potere esecutivo e quello legislativo sia fondamentale e permanente. Ma la tensione dovrebbe risolversi con il riconoscimento della priorità del secondo. La massima tocquevilliana per cui la democrazia si corregge con più democrazia dovrebbe quindi essere così interpretata: nell’equilibrio dei poteri (un bene che il costituzionalismo moderno ci ha regalato) occorre che il potere di proporre e fare le leggi sia centrale perché quello che direttamente discende dalla volontà dei cittadini. In una democrazia elettorale, fare le leggi comporta la centralità degli organi che ricevono autorità diretta dal suffragio. Circola tra i costituzionalisti l’idea che il cittadino sia arbitro. Questa riforma è figlia di questa interpretazione che va nella direzione di diminuire il valore e l’estensione del potere elettorale per porre l’accento sui poteri dello stato che il cittadino-arbitro osserva lavorare e giudica. Il cittadino-arbitro è come un giudice imparziale che sta fuori del gioco; i titolari della squadra sono i veri giocatori, non lui/lei. E i giocatori sono liberi di decidere che schema usare, quali ruoli rafforzare e quali indebolire. L’importante è che vincano. L’importante è che il cittadino-arbitro sappia a urne chiuse chi governerà, chi ha vinto. Poi i giochi sono tutti fatti da altri e il cittadino sta a guardare e alla fine del gioco decide se riconfermare quei giocatori o cambiarli. Questa visione della democrazia è così minima che accontenta chi ha una tradizionale allergia alla democrazia. La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perché restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri. In questa riforma spicca infatti la centralità dei giocatori e soprattutto di coloro che segnano, ovvero di chi fa: del potere esecutivo. Si restringe il dominio del potere legislativo (che è fatto anche di discussione e rappresentanza, non solo di decisione) nel senso che al voto dei cittadini si chiede di esprimere la maggioranza (a questo mira del resto la legge elettorale) e non tanto di vedere rappresentate le proprie idee o interessi; lo stesso vale per la Camera politica, alla quale anche è richiesto di sostenere il governo (della maggioranza) non tanto di controllare, mediare, discutere e se necessario fermare (insomma tutto quello che gli organi deliberativi dovrebbero fare). L’esito auspicato è l’identità della maggioranza monocamerale con l’esecutivo. I rappresentanti, con questa riforma, sono rappresentanti del volere della maggioranza. Si tratta di una riforma di stampo plebiscitario con la quale la bilancia del poteri pende verso l’esecutivo: il fare più che il discutere. Si approda al presidenzialismo senza dirlo. In questo quadro si iscrive la proposta di abolire il Senato eletto.

Perché bisogna essere critici di questa proposta (che non significa abbandonare l’idea di una riforma del Senato che sappia attuare un parlamentarismo funzionale ovvero che abbia sia il potere di esprimere la maggioranza, e fare leggi, sia che a quello di rappresentare, controllare e infine fermare)? Non è forse vero che Matteo Renzi ha commentato la legge sulla responsabilità dei giudici passata alla Camera dicendo che al Senato la si cambierà? Dunque, anche lui deve ammettere che passare una legge al vaglio due volte consente di correggere errori e migliorare una decisione. Questo solo dovrebbe bastare a convincerci della rilevanza di avere due Camere. Si dice inoltre e insistentemente che un Senato eletto allunga i tempi della politica. Ma si potrebbe obiettare che l’Italia repubblicana ha prodotto un numero spropositato di leggi pur anche con un bicameralismo perfetto! Insomma questi argomenti sono molto poco convincenti. E veniamo così al nodo centrale di questa proposta: l’elezione indiretta dei membri del Senato delle Autonomie.

Cominciamo dall’osservare che volendo riformare la Costituzione, sarebbe opportuno porsi la seguente domanda: perché ci proponiamo di attuare questa riforma? Da quale esigenza siamo mossi e per ottenere che cosa? Questo livello preliminare di chiarezza sulle intenzioni è importante perché consente di affrontare in maniera non approssimativa il problema, ovvero dargli organicità e coerenza. Indubbiamente, sono due le esigenze che giustificano una riforma della legge fondamentale della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente e (rispondente), e renderlo più funzionale. La prima esigenza detta la legittimità delle regole e procedure democratiche nell’era del costituzionalismo: neutralizzare e impedire l’arbitrio (anche della maggioranza eletta), e per questo rendere il potere dello Stato più efficacemente esposto al controllo e sapientemente bilanciato nei poteri che lo compongono, in modo che non ci sia accumulo in nessuno di essi. Se questa è l’esigenza, l’elezione indiretta (la nomina da parte degli organismi di governo comunale e regionale) del Senato della Repubblica va nella direzione contraria. Perché l’elezione indiretta dei componenti di un organo deliberativo (o che partecipa comunque alle decisioni nazionali sebbene non a tutte) è opaca rispetto all’elezione per suffragio dei cittadini. Al contrario, attribuisce un enorme potere discrezionale ad alcuni grandi elettori (sì eletti per suffragio universale, ma per svolgere funzioni di governo territoriale) che in questo modo acquisterebbero un potere superiore a quello di tutti gli altri cittadini, in violazione al principio di eguaglianza politica. Si risolve questo vulnus togliendo al Senato il potere di dare e togliere fiducia al governo, ovvero gli si assegna un potere mezzo-sovrano. In questo modo, si dice, non si toglie nulla al potere dei cittadini e del suffragio. Vero: ma si crea un potere delegato nuovo e molto ampio. Il paradosso di questo Senato nominato è che avrà troppi poteri per essere composto di nominati e troppo pochi poteri per riuscire a controllare gli eletti. Introduce infine un arretramento palese rispetto al suffragio diretto, con un ritorno al XIX secolo quando il voto indiretto venne teorizzato e usato come argine alla democrazia e all’incalzante espansione del suffragio diretto e segreto. Oggi lo si rispolvera per risparmiare e velocizzare la decisione.

L’evoluzione della storia politica occidentale è andata in una direzione contraria a quella del voto indiretto; anche perché è diventato in poco tempo un fatto provato che questo metodo di nomina serviva a generare e proteggere un’oligarchia social-politica, una classe di notabili sensibili agli interessi locali o di chi li nominava. A riprova di ciò potrebbe essere utile ricordare che il Senato degli Stati Uniti d’America fu nella prima fase della storia della federazione americana composto da nominati dagli Stati e diventò un istituto così corrotto e piegato agli interessi non controllabili dei potentati locali e dei notabili che controllavano le nomine da indurre il legislatore a riformarlo istituendo l’elezione diretta dei suoi membri. Quindi la strada semplificatrice e di risparmio che il Partito democratico promette rischia di produrre nuove sacche di corruzione e di privilegio. Un potere in mano ai grandi elettori locali anche se pagato con rimborsi sarà un’occasione di potere appetibile anche perché fuori dal controllo diretto dei cittadini e quindi meno scalfibile. Prevedibilmente si aumenterà la funzione repressiva e ai magistrati verrà dato un nuovo settore di controllo.

Un secondo argomento che si usa per giustificare questa riforma è che dobbiamo seguire modelli riusciti altrove, per esempio quello tedesco. Ma questo argomento è sbagliato e capzioso. La Germania è una federazione compiuta. Ha una Camera direttamente eletta dai cittadini tedeschi e una Camera dei Länder (Bundesrat). Quest’ultima è composta di membri non eletti a suffragio universale diretto, di esponenti dei governi dei vari Länder. Il fatto molto diverso che la federazione consente è che questa camera di nominati è per davvero espressione degli interessi dei Länder e infatti i suoi membri sono vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali per fare gli interessi di ciò di cui sono i rappresentanti (dei loro territori), in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. L’Italia annacquerebbe il modello tedesco perché non darebbe mandato imperativo ai rappresentanti dei territori – ma si potrebbe obiettare che in questo modo dà anche meno controllo e molta meno accountability. Se si vuole davvero fare un Senato delle regioni e dei territori occorrerebbe avere il coraggio di approdare a un compiuto federalismo, appunto come in Germania. Diversamente, il libero mandato a membri di un Senato nominato dai territori finirà per ascrivere un potere troppo grande, poco o nulla rispondente all’interesse dei territori, e troppo fuori controllo. Questo è il paradosso di un federalismo a metà e di un modello tedesco annacquato. Infine, non si tiene contro del fatto che la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento, non è retrocessa dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: dopo anni di condanne della casta ora si legittima la casta e si chiede agli italiani di devolvere il loro potere di elezione a funzionari ed eletti locali, piccoli potenti che le cronache quotidiane ci restituiscono come attori di una corruzione capillare ed espansa. È il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto o non invece la promessa implicita a una nuova generazione locale di prendersi velocemente una fetta di potere discrezionale? Un Senato che non risponde agli elettori perché non deve comunque sfiduciare il governo è un Senato che ha comunque troppo potere per non generare una nuova oligarchia, una nuova casta.

Da libertaegiustizia.it


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