Cosa resta del Job Acts? Quale riforma del lavoro? La fine delle relazioni industriali (forse!)

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1. Ci siamo. Il decreto legge 34 del 2014 è legge. Con questo provvedimento, per dirla in breve, oltre che a precarizzare definitivamente il lavoro si rinvia ad un tempo imprecisato l’adozione di un testo unico di legge che regoli il famoso “contratto unico”. Cosa accade al diritto del lavoro, in Italia? Partiamo da non troppo lontano, perché capire come le tutele del lavoro, in Italia, si stiano frantumando non è cosa semplice. Enrico Letta, nel 2013, viene incaricato di formare il governo mentre il partito di Silvio Berlusconi si sfalda e nasce il Nuovo Centro Destra. Angelino Alfano (così pare!) pone fine al “popolo” che lottava per la libertà, scarica un Berlusconi ormai potenzialmente fuori mercato, palleggia con i suoi fedelissimi e crea un nuovo spazio politico dalle poltrone del Governo. Intanto, sui territori, questa frammentazione viene accolta come l’ennesima occasione per consumare vendette politiche, ritornare nei propri spazi d’origine oppure salire a bordo del cambiamento per giocarsi ancora qualche carta. Con un colpo di spugna – che tinge di nuovo tutto d’azzurro – Alfano cancella una storia del centrodestra italiano, che ha avuto le sue fasi, per creare uno spazio politico moderato che raccoglie pezzi di un liberismo sfrenato e stralci di una classe dirigente decadente (ne stanno arrestando uno al giorno!). A fare da contorno a questo scontro generazionale, avvenuto tra gli imbarazzi e i silenzi “a singhiozzo” dei più che erano aggrappati alla giacca del Cavaliere, si aggiunge un’altra ambizione: Alfano e i suoi seguaci vogliono polarizzare il dibattito della politica italiana intorno a due partiti, il Partito Democratico e il Nuovo Centro Destra, che non fa altro che ripetere attraverso i propri rappresentanti che è l’alternativa ad una sinistra disorganizzata. Il primo round – che si è concluso pochi giorni fa – si gioca sulla riforma del mercato del lavoro: il Jobs Act. E’ proprio Maurizio Sacconi a “proclamarsi” regista di questo dibattito. Intanto a Dicemebre, Matteo Renzi è eletto segretario dei Democrat. Le proposte del Partito Democratico si basano su diverse versioni e modifiche. Una prima versione, in materia di occupazione, affronta la discussione interna al Partito nel Gennaio 2014. Si trattava di un documento aperto, politico, che doveva trasformarsi in un dettagliato documento tecnico entro metà Febbraio. L’obiettivo era “creare posti di lavoro, rendendo semplice il sistema, incentivando la capacità di investire dei nostri imprenditori, attraendo capitali stranieri”. Così non è stato ed è giusto spiegare perché.

2. Il documento “lavoro” di Matteo Renzi. Di quel documento, a metà Gennaio vengono resi noti dal segretario del Partito i titoli, suddivisi su tre grandi capitoli: interventi di sistema, nuovi posti di lavoro, le regole. Gli interventi di sistema riguardavano, a grandi linee, la riduzione del 10% del costo dell’energia per le aziende, soprattutto per le pmi, la riduzione del 10% dell’IRAP per le aziende, per dare un segnale di equità, oltre che concreto aiuto, a chi investe. Erano previsti anche risparmi da revisione della spesa corrente da destinare interamente a riduzione fiscale sul reddito da lavoro, veniva programmata l’introduzione dell’agenda digitale (fatturazione e pagamenti elettronici, investimenti sulla rete), l’eliminazione dell’obbligo di iscrizione alle Camere di Commercio, l’eliminazione della figura del dirigente a tempo indeterminato nel settore pubblico, semplificazione amministrativa delle procedure di spesa pubblica, obbligo di certezza della tempistica nel procedimento amministrativo, eliminazione della sospensiva nel giudizio amministrativo. Il tasto dolente, infine, dell’Italia delle neo – corporazioni era quello di introdurre obbligo di trasparenza per amministrazioni pubbliche, partiti, sindacati che avrebbero dovuto pubblicare online ogni entrata e ogni uscita. Per creare nuovi posti di lavoro e far ripartire la locomotiva Italia, il Partito Democratico proponeva un piano industriale con le azioni operative necessarie per incidere sull’occupazione e sviluppo in ciascuno dei seguenti settori: cultura, turismo, agricoltura e cibo, Made in Italy, ICT, Green Economy, nuovo Welfare, edilizia, manifattura. Per quanto concerne le regole, era prevista, invece, la presentazione di un codice del lavoro che racchiudesse e semplificasse tutte le regole attualmente esistenti e fosse ben comprensibile anche all’estero; la riduzione delle varie forme contrattuali e processo verso un contratto di inserimento a tempo indeterminato a tutele crescenti; un assegno universale, inoltre, per chi perde il posto di lavoro, con l’obbligo di seguire un corso di formazione professionale e di non rifiutare più di una nuova proposta di lavoro. A queste si aggiungevano anche l’obbligo di rendicontazione online ex post per ogni voce dei denari utilizzati per la formazione professionale finanziata da denaro pubblico (presupposto dell’erogazione doveva essere l’effettiva domanda delle imprese) e criteri di valutazione meritocratici delle agenzie di formazione con esclusione per chi non rispettasse determinati standard di performance. Era prevista l’istituzione di un’agenzia Unica Federale che coordinasse e indirizzasse i centri per l’impiego, la formazione e l’erogazione degli ammortizzatori sociali. I sindacati, invece, avrebbero dovuto beccarsi una legge sulla rappresentatività sindacale, che regolasse anche la presenza dei rappresentanti eletti direttamente dai lavoratori nei CDA delle grandi aziende. In questo progetto, si consolidava l’orientamento del Partito Democratico per cambiare verso al mercato del lavoro italiano in rapporto con i cambiamenti a livello internazionale.

3. La proposta “liberista” di Ncd. A questa continua programmazione di interventi, per “oliare, controllare” e rimettere sui binari la macchina Italia, il nuovo partito dei moderati (Ncd) risponde con uno dei suoi migliori player della filosofia liberista del mercato del lavoro: Maurizio Sacconi. Il Nuovo Centro Destra, già a Dicembre 2013, sta lavorando su una sua proposta, che doveva essere presentata come articolato di legge e come elemento di discussione per il patto di maggioranza che l’allora Presidente del Consiglio, Enrico Letta, avrebbe voluto chiudere entro il mese di Febbraio. L’impostazione era molto diversa dal progetto di Renzi; infatti tra le proposte chiave c’era l’abrogazione dell’articolo 18 sui licenziamenti, il ripristino dei contratti atipici secondo la legge Biagi, la cancellazione delle norme che vietano il demansionamento e il sottoinquadramento, la previsione di contratti individuali che potessero derogare ai contratti di lavoro. Nel dettaglio, secondo quanto riportato dai media, l’articolato prevedeva «misure ed interventi urgenti per favorire l’occupazione», una «delega al Governo per l’adozione dello Statuto dei Lavori», uno o più testi unici da emanare entro sei mesi per identificare «un nucleo fondamentale di diritti applicabile a tutti i rapporti di lavoro» rimettendo le restanti tutele al la libera contrattazione. Veniva aggiunta, inoltre, la possibilità che ci fossero anche accordi individuali che derogassero ai contratti, purché in tali accordi il lavoratore fosse assistito (dal sindacato o da un consulente del lavoro) e l’intesa fosse certificata da enti terzi (direzioni provinciali del lavoro, enti bilaterali, ecc.). E’ la fine del contratto nazionale di lavoro. In aggiunta a queste previsioni, veniva prevista anche la durata massima del contratto a termine senza causale (l’azienda non doveva giustificare perché lo faceva), estesa da uno a due anni; il contratto di apprendistato veniva drasticamente semplificato sulla formazione, dando alle associazioni di categoria il potere di certificare che esso fosse conforme a quanto richiesto; era anche prevista l’ abrogazione di tutti i vincoli aggiunti dalla Riforma Fornero sui contratti a progetto, sul lavoro intermittente, sul lavoro accessorio tramite voucher e sulla associazione in partecipazione. Altri aspetti caratterizzanti di questa “mega” proposta di legge erano: il periodo di prova, che generalmente è di tre mesi dal momento dell’assunzione, veniva portato a due anni; veniva soppresso l’articolo 18, il diritto al reintegro nel posto di lavoro sarebbe rimasto solo per i licenziamenti discriminatori, mentre in tutti gli altri casi ci sarebbe stato un indennizzo economico (senza più la distinzione attuale tra licenziamenti per motivi disciplinari ed economici con la possibilità, in determinati casi, di ottenere il reintegro); sarebbe stato abrogato il divieto di demansionamento e sottoinquadramento, anche l’articolo 4 dello Statuto che vieta i sistemi di videosorveglianza, «anche allo scopo di eliminare impedimenti al telelavoro». Veniva inserita l’introduzione dell’arbitrato volontario quale canale alternativo al percorso giudiziale per risolvere le controversie in materia di lavoro varie le misure di carattere economico, il potenziamento degli sgravi fiscali sul salario di produttività; estensione della cassa integrazione a tutte le aziende con meno di 15 dipendenti (al posto di quella in deroga) a patto che pagassero gli specifici contributi; la trasformazione di tutti gli ammortizzatori sociali in «dote» per le aziende che assumessero il lavoratore sussidiato; l’istituzione di un’ Agenzia nazionale per il lavoro e la formazione; la previsione di un voucher per i disoccupati (sul modello Lombardia) da spendere presso le agenzie di formazione e ricollocamento. Se questo progetto di “ribaltamento” fosse passato, si sarebbe consumata la fine del diritto del lavoro, quindi, per come lo abbiamo conosciuto.

 

4. La svolta. Nei giorni scorsi, il Partito Democratico ha esultato per quanto successo: il decreto legge che prevede la riforma del mercato del lavoro è divenuto legge. E’ un testo pasticciato, a tratti confusionario, che secondo il presidente del consiglio, ha permesso a una certa forza lavoro di non “andare a casa”. La rivoluzione che il documento “lavoro” di Matteo Renzi avrebbe portato in Italia, invece, doveva pur passare per le mani dell’Ncd, alleato di Governo: otto emendamenti governativi in Commissione Lavoro al Senato, che hanno sostanzialmente peggiorato il testo. Ma vediamo cosa, oggi ci propone il testo. L’articolo 1 del D. L. 34/2014, convertito in L. 78/2014, contiene disposizioni in materia di contratti a tempo determinato (c.d. lavoro a termine) e somministrazione di lavoro a tempo determinato, con l’obiettivo di facilitare il ricorso a tali tipologie contrattuali. A tal fine, la disposizione modifica in più parti il decreto legislativo n.368/2001 e il decreto legislativo n.276 del 2003, prevedendo, in primo luogo, l’innalzamento da 1 a 3 anni, comprensivi di un massimo di 5 proroghe (8 proroghe nel testo originario del decreto legge), della durata del rapporto a tempo determinato (anche in somministrazione) che non necessita dell’indicazione della causale per la sua stipulazione (c.d. acausalità). A fronte dell’eliminazione della causale, viene introdotto un “tetto” all’utilizzo del contratto a tempo determinato, stabilendo che il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato alle sue dipendenze (criterio più restrittivo rispetto al “20% dell’organico complessivo” previsto nel testo originario del decreto-legge). Il superamento del limite comporta una sanzione amministrativa pari al 20% e al 50% della retribuzione per ciascun mese di durata del rapporto di lavoro, se il numero di lavoratori assunti in violazione del limite sia, rispettivamente, inferiore o superiore a uno (il testo originario del decreto-legge non prevedeva alcuna conseguenza per il superamento del tetto, mentre nel testo approvato dalla Camera era prevista la trasformazione in contratti a tempo indeterminato). Per i datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti è comunque sempre possibile stipulare un contratto a tempo determinato. Il limite del 20% non trova applicazione nel settore della ricerca, limitatamente ai contratti a tempo determinato che abbiano ad oggetto esclusivo lo svolgimento di attività di ricerca scientifica, i quali possono avere durata pari al progetto di ricerca al quale si riferiscono. Quale contraddizione? All’articolo 1 comma 1 lettera a del decreto legge 34 / 2014 è previsto che “il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell’anno di assunzione”. Ciò che non sembra chiaro è se questo 20 % comprenda anche i lavoratori con un contratto di somministrazione a tempo determinato, oppure il limite del 20% si applica anche ai lavoratori con un contratto di somministrazione a tempo determinato; questa interpretazione comporterebbe la possibilità di sommare al 20% dei contratti a tempo determinato un altro 20% di contratti di somministrazione, per un totale del 40% di lavoratori precari rispetto all’organico complessivo dell’azienda. All’articolo 1 comma 1 lettera b-quater il legislatore invece specifica che per il calcolo del cumulo per il raggiungimento del periodo massimo di durata del contratto a tempo determinato, pari a trentasei mesi, si tiene conto – per il medesimo soggetto – dei periodi di missione che abbaino ad oggetto mansioni equivalenti, dei contratti a termine e dei contratti di somministrazione, che insieme abbiano raggiunto il limite massimo. E’ forse una “scappatoia” per agevolare l’ennesima interpretazione? Staremo a vedere.

5. Il diritto di precedenza. Varie disposizioni sono volte ad ampliare e rafforzare il diritto di precedenza delle donne in congedo di maternità per le assunzioni da parte del datore di lavoro, nei 12 mesi successivi, in relazione alle medesime mansioni oggetto del contratto a termine. A tale riguardo si prevede che ai fini dell’integrazione del limite minimo di 6 mesi di durata del rapporto a termine (durata minima che la normativa vigente richiede per il riconoscimento del diritto di precedenza) devono computarsi anche i periodi di astensione obbligatoria per le lavoratrici in congedo di maternità. Si prevede, altresì, che il diritto di precedenza valga non solo per le assunzioni con contratti a tempo indeterminato (come già previsto dalla normativa vigente), ma anche per le assunzioni a tempo determinato effettuate dal medesimo datore di lavoro. Infine, si stabilisce che il datore di lavoro ha l’obbligo di richiamare espressamente il diritto di precedenza del lavoratore nell’atto scritto con cui viene fissato il termine del contratto.

6. L’apprendistato. L’articolo 2 del D.L. 34/2014, convertito in L. 78/2014, contiene disposizioni in materia di apprendistato, con l’obiettivo di semplificarne la disciplina. A tal fine, si modificano in più parti il D.Lgs. 167/2011 e la L. 92/2012, prevedendo, in primo luogo, modalità semplificate di redazione del piano formativo individuale (per il quale il testo-originario del decreto-legge faceva venir meno l’obbligo previgente di redazione in forma scritta), sulla base di moduli e formulari stabiliti dalla contrattazione collettiva o dagli enti bilaterali. Per quanto concerne la stabilizzazione degli apprendisti (ossia la loro assunzione con contratto a tempo indeterminato a conclusione del periodo di apprendistato), il decreto legge riduce gli obblighi previsti dalla legislazione previgente ai fini di nuove assunzioni in apprendistato (obbligo di stabilizzazione del 30% degli apprendisti nelle aziende con più di 10 dipendenti), da un lato circoscrivendo l’applicazione della norma alle sole imprese con più di 50 dipendenti, dall’altro riducendo al 20% la percentuale di stabilizzazione. Nel testo originario del decreto-legge gli obblighi di stabilizzazione previgenti erano stati del tutto soppressi; nel testo approvato dalla camera l’obbligo di stabilizzazione si applicava solo alle imprese con più di 30 dipendenti. Per quanto concerne la semplificazione dei profili formativi, si prevede che la Regione provveda a comunicare al datore di lavoro, entro quarantacinque giorni dalla comunicazione dell’instaurazione del rapporto, le modalità di svolgimento dell’offerta formativa pubblica, anche con riferimento alle sedi e al calendario delle attività previste, avvalendosi anche dei datori di lavoro e delle loro associazioni che si siano dichiarate disponibili, ai sensi delle linee guida adottate dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano in data 20 febbraio 2014. Nella normativa previgente la formazione pubblica regionale era obbligatoria, mentre nel testo originario del decretolegge era lasciata al datore di lavoro la facoltà di non avvalersene; il testo approvato dalla Camera stabiliva che l’obbligo per il datore di lavoro di integrare la formazione aziendale con l’offerta formativa pubblica venisse meno nel caso in cui la Regione non comunicasse le modalità per usufruirne entro 45 giorni dall’instaurazione del rapporto di lavoro con l’apprendista. Per quanto attiene, infine, alla retribuzione dell’apprendista, fatta salva l’autonomia della contrattazione collettiva, si prevede che, in considerazione della componente formativa del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, si debba tener conto delle ore di formazione almeno in misura del 35% del relativo monte ore complessivo. L’articolo 2 – bis, attraverso una disciplina transitoria, prevede che (fermi restando comunque i diversi limiti quantitativi stabiliti dai vigenti contratti collettivi nazionali) per i datori che alla data di entrata in vigore del decreto-legge occupino lavoratori a termine oltre tale soglia, l’obbligo di adeguamento al tetto legale del 20% scatta a decorrere dal 2015, sempre che la contrattazione collettiva (anche aziendale) non fissi un limite percentuale o un termine più favorevoli. Finora, prima di poter assumere nuovi apprendisti, era previsto che il datore di lavoro che occupa più di nove lavoratori doveva aver confermato almeno il 50% dei contratti scaduti nei 36 mesi precedenti. Peraltro fino al 18 luglio 2015 operava un regime transitorio che abbassava la soglia al 30%. Inoltre, i contratti collettivi potevano regolamentare tale condizione anche per i datori di lavoro al di sotto di tale limite numerico. Il decreto legge elimina tale onere in tutti i casi e pertanto l’assunzione di nuovi apprendisti sarà possibile a prescindere dall’eventuale mancata trasformazione dei precedenti contratti di apprendistato già scaduti. Per quanto attiene al non obbligo del “piano formativo” siamo in attesa di chiarimenti se riguardano le assunzioni dal 20.03.2014 o anche per quelle pregresse e la concertazione tra la normativa Regionale e quella nazionale. Appena in possesso degli elementi certi lo studio rivisiterà l’impostazione della formazione.

7. Quale solidarietà? Nel Job Acts non è mancata la presenza di norme “ad hoc” per favorire chi negli ultimi tempi ha fatto “tremare” la forza lavoro italiana: l’Elettrolux. Sono stati agevolati i contratti di solidarietà (art. 6) con uno sgravio fiscale sulla contribuzione e la riduzione del salario da erogare ai lavoratori a cui viene applicato un contratto di solidarietà “difensivo”. Eppure, ci hanno spolpato risorse a non finire in questi ultimi tempi. Più di otto milioni di euro a fondo perduto. E’ questa la somma ricevuta dalla Elettrolux in dieci anni dalla Regione Friuli Venezia Giulia su diversi progetti di ricerca e sviluppo (uno dei tanti era la creazione della lavatrice ad ossigeno). La cifra esatta, ottenuta da LaPresse dagli uffici contabili dell’assessorato alle attività produttive, è di 8 milioni e 140mila euro. I primi finanziamenti risalgono al 2003, quando ottennero 187mila euro. Poi l’azienda ricevette 120mila euro nel 2006, e altri 238mila euro nel 2007. Tra il 2008 e il 2012 altri 7 milioni e 600mila euro circa, due milioni dei quali finanziati con fondi comunitari. Oggi, ricevono anche un’agevolazione legislativa, di stampo governativo, che bypassa la negoziazione sindacale. E mentre l’Elettrolux mette sotto scacco parte dello Stato, una nuova crisi si apre a Taranto: il settore della raffinazione dei carburanti è in crisi da tempo. Vi è un calo delle esportazioni notevole. I costi di produzione sono notevoli rispetto alle rigorose normative europee che impongono un certo modo di produzione. Quale futuro? Il rapporto tra capitalismo e democrazia ha segnato la storia del Novecento. In questo gioco “precario” di ruoli, tra profitto e diritti sociali, intere generazioni hanno pagato una crisi prodotta da un sistema che sfugge alla normazione da una parte, e per una politica poco lungimirante dall’altra. La tendenziale eliminazione di ogni ostacolo (tutele) al movimento dei capitali ha determinato un trionfo del capitalismo finanziario sulla democrazia, ed ha alimentato una sempre più ampia spaccatura tra redditi da capitale e redditi da lavoro. Ed è così che gran parte della popolazione si è indebitata per reggere in ogni caso la domanda del mercato. Le scorse politiche hanno mostrato l’esodo di un sistema politico e di rappresentanza rispetto al quale le istituzioni non possono rimanere ferme. E di sicuro, non è questa la strada da intraprendere per rilanciare il sistema produttivo italiano. Sono circa trent’anni che in Italia non viene fatta una politica industriale, che preveda piani di investimento ed innovazione. E’ la fine delle relazioni industriali? Forse.


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