I dolori dell’antimafia al tempo degli avvoltoi

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Il movimento antimafia è in pieno subbuglio. Si è aperto un solco doloroso in un campo già minato da tensioni e pericoli, in un momento così difficile che solo ad immaginarne i possibili sviluppi vengono i brividi. Da un lato i casi shock di Rosy Canale e del sindaco Girasole, in Calabria, dall’altro le parole durissime del prof. Nando Dalla Chiesa, il quale, da fine dicembre scorso, con un pezzo pubblicato sul Fatto Quotidiano, denuncia attraverso il suo blog la deriva del movimento verso quello che egli stesso ha definito “circo dell’antimafia”, suscitando polemiche e aprendo una riflessione che inevitabilmente ha assunto toni aspri. Le vicende emerse in terra calabra hanno indotto qualcuno a trasformarle in arma tagliente per colpire tutti, indiscriminatamente, per avvalorare le proprie tesi sul marcio che si muove sottobanco, su una presunta “antimafia mafiosa”, sul reale grado di moralità di personaggi o associazioni che da anni sono presenti sul campo della lotta al crimine organizzato e della promozione della cultura della legalità. Si è cercato da subito di colpire i simboli intoccabili, attraverso l’uso strumentale di due episodi. Come dire: se qualcuno ci ha creduto, non importa se in buonafede, siete tutti colpevoli, anche coloro che diffidavano. Una ricerca di colpevolezza spintasi verso l’alto nella speranza maligna di un colpo di scena, una notizia ad effetto che potesse definitivamente confermare l’ipocrisia del movimento, devastarlo, indebolirlo. Proprio adesso che c’è bisogno di unità. Adesso che i veleni contro i magistrati palermitani partoriscono un funesto déjà vu, adesso che, da una galera, Riina impartisce l’ordine di condanna a morte nei confronti del giudice Di Matteo. All’epoca c’era il Corvo, oggi ci sono già gli avvoltoi, nelle istituzioni come in quei soliti giornali che, con il consueto tempismo, hanno pronto il dossier, o meglio, la notizia. Quella di una questione privata, la denuncia di uno sconosciuto contro don Luigi Ciotti (che ha risposto bene), alla quale sicuramente in molti avranno dato immediato credito, magari non trattenendo una risatina soddisfatta. Tutto quello che stiamo vivendo in queste ultime settimane origina da ciò che è accaduto in Calabria. Anche le parole di Dalla Chiesa sul circo dell’antimafia nascono in risposta ad un collaboratore di giustizia, Luigi Bonaventura, il quale, sui casi Canale e Girasole, attacca e suggerisce di riferire al “signor Nando” che le cose “vanno dette tutte e bene”. Una sottile allusione, un attacco neanche tanto velato che non è andato giù al professore e presidente onorario di Libera, a cominciare dall’uso delegittimante dell’espressione “signore”, ricordando quanto raccontato da Giovanni Falcone nel libro scritto con Marcelle Padovani (“Cose di cosa nostra”). Da lì una serie di giudizi severi e netti su Bonaventura, sulla sua credibilità, sul fatto che venga invitato a convegni a parlare di mafia, sulla veridicità delle sue affermazioni. E un rimprovero tagliente a chi continua ad eleggerlo come parte di un movimento che, in passato, manteneva una distanza netta tra sé e il mondo mafioso, compresi coloro che decidevano di uscirne. Tutti concetti che, depurati dalle scorie di una reazione impulsiva, hanno un fondo di verità. Perché si può tranquillamente essere d’accordo su alcune considerazioni generali e sul fatto che un collaboratore di giustizia, al di là della sua scelta di rottura con il passato e della sua condizione presente, non dovrebbe mai dimenticare che da questa parte c’è gente che non ha mai smesso di combattere, di sacrificare il proprio tempo e le proprie energie nervose, i propri affetti per il bene della collettività, anche di coloro che all’epoca erano dalla parte opposta. Egli dovrebbe pertanto mantenere un profilo basso e non lasciarsi andare ad allusioni o attacchi inopportuni. Evitare di sfidare sul campo della legalità chi ne è stato e ne è ancora fiero rappresentante. Detto questo, io Luigi Bonaventura l’ho intervistato per oltre due ore, ho ascoltato la sua storia, quello che aveva da dire, senza giudicare e senza mai portare la discussione/intervista su terreni esterni alla sua esperienza umana, prima criminale e poi di collaborazione e dunque processuale. Credo che sia quello che un giornalista debba fare. Rispettare l’umanità dell’interlocutore. Chiunque esso sia e indipendentemente da ciò che si pensi. La sua credibilità la possono giudicare esclusivamente le procure e i magistrati. E fino ad ora non è mai stata messa in dubbio, ma non è questo il punto. Nando Dalla Chiesa non crede a Bonaventura e uno come lui, a cui appartiene forse la migliore analisi del fenomeno mafioso e mafioso/politico che sia stata scritta in questi anni, ha tutto il diritto di farlo.  E di  ribadirlo. L’esperienza che fa rima con competenza e credibilità, merita rispetto. Lo merita anche quando non si condividono tutte le parole che ne derivano. Perché nel legittimo ragionamento di Dalla Chiesa c’è un aspetto, forse il più doloroso, che proprio non mi riesce di accettare e condividere: il coinvolgimento di Giulio Cavalli, le allusioni su un presunto gioco a fomentare la credibilità di Bonaventura per trarne giovamento, in primis la scorta (“il pentito – scrive il prof. Dalla Chiesa – sparge rivelazioni sui rischi mortali che corre Cavalli e Cavalli dichiara ovunque che il pentito è credibilissimo. Uno riceve la scorta e l’altro viene invitato ai dibattiti e scrive perfino editoriali”). Non ha senso. Oltre al fatto che, né in rete né sui giornali, si trova alcuna sua dichiarazione sulla credibilità di Bonaventura, viene da chiedersi: che cosa c’entra Cavalli? L’attore e regista lombardo è sotto scorta dal 2008, cioè da molto tempo prima delle rivelazioni di Bonaventura, che risalgono all’anno scorso. Quindi quale sarebbe il giovamento di una vita ancora più blindata? Soprattutto, in tutta questa vicenda (e nei dibattiti che ha generato), si dimentica che le dichiarazioni sul presunto progetto di assassinarlo sono state confermate, davanti ai magistrati, anche da un altro collaboratore di giustizia, Francesco Oliverio, anch’egli ritenuto attendibile dalle procure e meno noto all’opinione pubblica, perché più avvezzo a mantenere un profilo basso, a non esporsi. Infine, c’è un’altra cosa che stranisce. Ammettiamo, infatti, che un giorno si scoprisse che i pentiti hanno detto il falso, che hanno seguito un proprio disegno, che non vi era alcun progetto assassino: che colpe avrebbe Giulio Cavalli? È forse una colpa quella di lasciarsi proteggere con maggior riguardo dopo che due collaboratori dichiarano che qualcuno ha pensato di ucciderti o dopo che una pistola viene rinvenuta sotto la finestra di casa tua? Ecco, questo è ciò che sfugge di tale ragionamento, che addolora, perché quando le parole dure e legittime finiscono per tirare in ballo gli incolpevoli, uomini come Giulio che certamente non vivono da star e che fanno antimafia buona, con il teatro, con i libri, con le parole usate alla maniera giusta, capisci che il clima è veramente brutto. Che ci stiamo abbrutendo anche nel dibattere. Che alla fine, in un momento che richiederebbe unità e confronto, aspro ma rispettoso, dentro il movimento, si stanno piantando chiodi sulla carne di un corpo già esposto alle brame di belve fameliche che, dal di fuori, aspettano la minima mossa per azzannare, mentre dall’interno pompano divisioni e rancori tra chi sta con Dalla Chiesa o contro Dalla Chiesa, con don Ciotti o contro don Ciotti, con Cavalli o contro Cavalli, con Libera o contro Libera. Tout court, acriticamente, senza sfumature né ragionamenti. Ci attendono tempi duri e non è questo il modo di prepararsi ad affrontarli. I pericoli veri sono ben oltre le scaramucce e i sassolini lanciati via. Le priorità sono altre. “È il senso politico dell’antimafia in sé, del movimento civile, che va sbiadendo ogni giorno”, ha scritto Riccardo Orioles. Difficile non essere d’accordo con lui.

* ilmegafono.org


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