Giornalismo sotto attacco in Italia

Morire per raccontare

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L’ultima vittima è Mahmood Ahmd Afridi, un giornalista pakistano che collaborava ad alcuni periodici locali e ad una tv. E’ stato ucciso a bruciapelo in mezzo alla gente da tre uomini armati che lo hanno seguito dentro un bazar a Kalat, nella provincia del Baluchistan: probabilmente ha pagato gli attacchi al movimento separatista. Una guerra lontanissima, che non ci appartiene, e che sta facendo molte vittime: già sette quest’anno che vanno ad aggiungersi alle diciotto dell’anno scorso. E’ il destino tragico di tanti reporter nel mondo che hanno l’unica colpa di testimoniare. E’ una strage silenziosa, di cui nessuno dà conto, che ha già fatto venti vittime in questi due primi mesi dell’anno. Un bilancio che si è impennato negli ultimi dodici mesi con i quarantadue morti in Siria, di cui sette stranieri. Ogni anno muoiono in media oltre cento reporter a cui sono da aggiungere ormai i bloggers che operano nei posti difficili: il 2012 ha raggiunto una cifra complessiva impressionante, addirittura 285 morti. Detti così sembrano solo numeri, ma è il quadro concreto di quanto sia sempre più difficile fare il cronista: seicento vittime negli ultimi cinque anni, quasi duemila negli ultimi dieci anni.

Ai morti ci sono poi da aggiungere le altre vittime. Attualmente sono 193 i giornalisti in carcere (la prigione più estesa è in Turchia), duemila gli arrestati, quaranta i rapiti e ottanta quelli in esilio, che hanno cioè dovuto abbandonare il proprio Paese.

Un altro posto dov’è molto difficile lavorare è sicuramente la Somalia dove l’informazione passa soprattutto attraverso le radio. L’anno scorso ne sono stati uccisi diciotto, più della metà di Radio Shabele che è dichiaratamente contro gli “shaabab”. L’ultimo era il vicedirettore, si chiamava Abdihared Osman Adan. Qualche anno fa, sulle tracce degli assassini di Ilaria Alpi, sono stato a Mogadiscio e ho visitato quella radio, ho conosciuto i loro studi, ho parlato con i redattori. Erano onorati di ricevere ospiti italiani. Gli ho chiesto come si può fare il giornalista lì. Hanno risposto sicuri, tracciando programmi e progetti. Ma poi ho chiesto ancora: ma si può essere liberi a fare i giornalisti in Somalia? Non hanno capito la domanda, e mi hanno offerto cocacola.


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