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RFF20: “Dracula: A Love Tale”. Un racconto luminoso, audace, esteticamente ineccepibile

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Luc Besson non reinventa il mito, lo ribalta, trasformando l’orrore gotico in un’elegia luminosa e sanguinosa sull’amore, il tempo e la memoria. Un’opera audace, imperfetta, ma che pulsa di una bellezza formale così intensa da lasciare senza fiato.

Prima di essere un’icona cinematografica, il Conte Dracula è una potenza letteraria. Creato da Bram Stoker nel 1897, il personaggio non è mai stato semplicemente un mostro assetato di sangue, ma la personificazione del terrore vittoriano per l’ignoto, l’eros represso e l’invasione straniera. Il romanzo ha dato forma definitiva al mito del vampiro, consacrandolo come archetipo del male seducente e della condanna eterna.

Ogni adattamento cinematografico – da Murnau a Coppola – non fa che misurarsi con questa eredità letteraria monumentale: la tragedia di un uomo la cui rabbia verso Dio lo ha trasformato in una creatura intrappolata in un ciclo infinito di morte e desiderio. La versione di Luc Besson non ignora questa origine, ma la spoglia dell’horror gotico per concentrarsi sulla purezza della pena del Conte: un’anima spezzata, eternamente in cerca della redenzione attraverso l’amore perduto.

Il nuovo “Dracula: A Love Tale” di Besson – presentato in occasione della XX edizione della Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public, nelle sale italiane dal 29 ottobre con Lucky Red – non è un remake ma una reinterpretazione il cui punto di forza assoluto è l’estetica. Besson, coadiuvato dal direttore della fotografia Colin Wandersman, eleva ogni inquadratura a opera d’arte, rendendola protagonista nel raccontare il peso dei secoli e la struggente memoria dell’amore. Questo impianto visivo fortemente teatrale serve a sublimare il dolore del Conte, rendendo la sua immortalità una malattia filmata con una bellezza quasi lirica.

L’uso del colore è maestoso – dai rossi profondi del sangue e della passione, ai blu glaciali che avvolgono l’immortalità di Dracula – e così le scenografie, cariche di misticismo, spesso evocative, che ricordano la migliore tradizione visiva di Besson.

Al centro di questa tragedia luminosa c’è la performance magnetica e inquietante di Caleb Landry Jones. Il suo Dracula non è il predatore elegante e disumano che conosciamo, ma un uomo spezzato, condannato a vivere in un limbo tra l’umano e il post-umano. La sua bellezza non lo salva, la sua cultura non lo redime; è semplicemente un corpo che soffre per la perdita di Elisabeta (Zoë Bleu Sidel), reincarnata secoli dopo nella sua nuova ossessione, Mina.

La narrazione si concentra totalmente sul conflitto interiore: un antieroe inchiodato alla memoria, costretto a muoversi in un mondo che osserva dapprima con curiosità e quindi con crescente sconforto. Il film brilla anche grazie al resto del cast: Christoph Waltz è sublime nel ruolo del prete sornione e complesso esperto in vampirismo e Matilda De Angelis aggiunge una sensibilità moderna e una folle, sensuale energia nel ruolo di Maria, una nobildonna trasformata in vampira.

Il finale non cerca la perfezione narrativa ma la catarsi spirituale. Il regista sembra volerci ricordare che l’amore, anche quando è sbagliato e distruttivo, resta la forza più sovversiva. È un finale che lascia l’amaro in bocca perché costringe lo spettatore a confrontarsi con l’illusione di poter riparare il passato. La tensione emotiva, magistralmente costruita, si dissolve in una scelta audace che rischia di alleggerire eccessivamente il peso del mito.

In definitiva, questo Dracula è un’opera poetica con un finale divisivo e proprio per questo viva e appassionante. Non è un horror, ma un’elegia sul desiderio di eternità filtrata attraverso l’occhio visionario di Besson.


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