Giornalismo sotto attacco in Italia

“Sundown”, di Michel Franco, Mex-Sve-Fra, 2021. Con Tim Roth, Charlotte Gainsbourg

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Michel Franco ha realizzato con “Sundown” un film silenzioso e privo di spiegazioni, e per questo potentemente umano. Tim Roth, straordinario nel ruolo di Neil, è il protagonista di questo racconto svuotato di trama, immerso in un’atmosfera calda e opprimente, quella dell’assolata Acapulco, che sembra immobilizzare ogni gesto, ogni parola. Non c’è frenesia né indagine psicologica, solo una resa totale al tempo che si dilata, all’attesa, all’abbandono. In questa sospensione, emerge la figura di Neil come una presenza estranea a tutto, un uomo che ha smesso di partecipare. Come Meursault ne “Lo straniero” di Camus, anche Neil è segnato da un’indifferenza che non è freddezza, ma sottrazione. È un uomo che ha rinunciato a far finta. La morte, prossima figlia della malattia, presenza silenziosa nel film, è già in corso dentro di lui, come una condanna inconfessata ma già metabolizzata. E di fronte a questa certezza, la vita borghese, con i suoi doveri, le sue ipocrisie, le sue pose, perde completamente di senso. Neil abbandona la famiglia, mente sul motivo del suo ritorno mancato a Londra, si rifugia in un albergo semplice, guarda il mare, mangia tacos, dorme, galleggia. Non c’è fuga drammatica, non ci sono rimorsi. Solo l’esercizio della libertà assoluta, quella di vivere secondo un tempo interiore, ormai distaccato da ogni aspettativa sociale. Anche lo spazio che egli abita sembra fagocitato da questa sua vitale non volontà. Franco filma Neil con pudore, senza mai spingerlo a spiegarsi. I dialoghi sono ridotti al minimo, spesso assenti. Gli sguardi, invece, come detto, diventano fondamentali.

I suoi occhi osservano il mondo ma non lo giudicano, non cercano più niente. Persino la violenza, che esplode brutalmente nella quotidianità del luogo che ha scelto per dissolversi, non lo scuote. La morte, che è ovunque in “Sundown”, da quella della madre lontana a quella improvvisa e drammatica della sorella fino alla sua stessa, viene accolta da Neil come parte del flusso naturale delle cose. Egli non è un cinico. È un uomo disarmato, che ha trovato la propria verità nel silenzio, nell’assenza. Come Meursault, non cerca redenzione né comprensione. Vive i suoi ultimi giorni spogliandosi di tutto, dal denaro ai legami più cari. Eppure, nella sua scelta, c’è un’umanità profondissima, quasi commovente. Non è la fuga di un irresponsabile, ma il gesto ultimo di chi si riconcilia con la finitezza dell’esistenza e sceglie di abitarla senza più maschere. Michel Franco non cerca effetti, non offre chiavi interpretative facili. La sua regia è sobria, quasi invisibile. Ma proprio in questo “minimalismo” sta il carattere fondante del film. Ogni scena, ogni pausa, ogni sguardo costruisce un affresco dell’essenziale. L’amore, la colpa, la memoria, la famiglia, tutto passa in secondo piano, o meglio, viene ricondotto a una dimensione più vera, meno dichiarata, destinata all’oblio, come la vita stessa richiede, in un ossimoro che è verità assoluta. “Sundown” è un film difficile da raccontare perché non si lascia afferrare. È proprio questa la sua forza. Non si guarda, si attraversa, forse si vive anche. E alla fine, lascia dentro una sensazione di verità rarefatta. Non c’è catarsi, non c’è dramma nel senso convenzionale. Ma c’è una limpida, irriducibile affermazione dell’essere. In un cinema dominato da narrazioni esplicite, quello del regista messicano è un oggetto raro. Un film che parla sottovoce, ma che resta per sempre.


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