Cosa accade alla libertà di informazione quando il potere politico decide di silenziare dei giornalisti liberi? E quali conseguenze subisce la società se tale epurazione raggiunge il suo scopo? È da queste domande che nasce la scelta, da parte di un giovane ragazzo di 22 anni come me, di laurearsi con una tesi dal titolo: “L’editto bulgaro”. Berlusconi, la tivù e l’articolo21. Crescere in un Paese in cui l’informazione si è troppo spesso lasciata subordinare alla politica, a scapito della verità e del pluralismo, ha rappresentato una spinta decisiva a indagarne le
cause. Le parole bulgare dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ai danni di Biagi, Luttazzi e Santoro sono quindi state il punto di partenza di un’analisi che è voluta andare oltre la semplice ricostruzione storica dell’evento. L’obiettivo è stato quello di ricostruire criticamente l’evoluzione di un sistema capace di concentrare un simile potere mediatico, interrogandosi allo stesso tempo su ciò che resta oggi, a oltre vent’anni di distanza, di quell’episodio. Da qui prende forma la ricostruzione di una lunga storia, che parte dalla nascita di TeleMilano, attraversa il metodo del “pizzone”, si consolida grazie a provvedimenti legislativi favorevoli, penetra in politica e mira alla costruzione di un sistema che sfrutta un mezzo così popolare come la televisione per imporre una narrazione a senso unico. È con questo sguardo che va letta quella conferenza stampa: non un episodio isolato, ma l’apice di un processo lungo che – come troppo spesso in Italia – ha interpretato la libertà d’informazione come un diritto negoziabile, subordinato agli equilibri del potere. Un sistema, dunque, che ritrova i suoi frutti ancora oggi, tanto nei metodi quanto nelle anomalie che lo caratterizzano. I personaggi cambiano, ma il servilismo, l’antidemocraticità e il disprezzo nei confronti della libertà restano. Non è un caso, infatti, che l’Italia occupi da anni posizioni sostanzialmente invariate nelle classifiche e i rapporti internazionali in tema di libertà di stampa: i richiami sono rimasti pressoché gli stessi, come d’altronde resiste inalterata l’indifferenza della politica al tema. Insomma, una tesi destinata a consegnare ad un giovane come tanti un futuro tutt’altro che rassicurante. Eppure, allo stesso tempo, dalla ricostruzione emerge con forza la voglia di non chinare il capo e di continuare a lottare, da cittadino, per un’informazione libera. Una prospettiva confermata anche dalle parole di Giuseppe Giulietti, che ho avuto il grande onore di intervistare. Le sue parole, nel certificare la sensazione di trovarsi di fronte ad un sistema che mira all’eliminazione del pensiero critico, hanno rafforzato una convinzione già maturata lungo il percorso di studio. Analizzare una stagione così burrascosa per il sistema informativo italiano ha significato interrogarsi sul significato stesso della cittadinanza e sul modo di esercitarla, in un tempo in cui la manipolazione dell’informazione non passa più solo dalla televisione, ma dai social, dagli algoritmi, dalle nuove forme di propaganda invisibile. La scelta, che può apparire difficile e spaventosa, è stata in realtà molto semplice. La libertà
d’informazione non muore mai di colpo, ma si spegne lentamente, ogni volta che la verità smette di essere una priorità collettiva. Raccontare una tale storia — quella di un premier, di tre giornalisti e di un Paese intero messo davanti allo specchio — è stato un modo per ricordare che la democrazia vive solo se la parola resta libera. E difendere quella libertà, oggi come allora, significa difendere noi stessi.
