La scomparsa di John Searle, uno dei più influenti filosofi contemporanei (morto il 17 settembre scorso a 93 anni, in una situazione di isolamento su cui ancora si addensano ombre inquietanti), invita a riflettere non solo sulla filosofia della mente e sull’intelligenza artificiale (temi su cui ha fornito contributi fondamentali), ma anche sul senso più profondo del termine “informazione”. Ed è proprio questo concetto, che unisce filosofia e attività giornalistico-pubblicistica, a rendere la sua eredità particolarmente attuale. Non è un caso che oggi discutere di informazione significhi interrogarsi al tempo stesso sul rapporto tra realtà, linguaggio e coscienza.
Per Searle, l’informazione non è un dato oggettivo che esiste di per sé, come la gravità o la fotosintesi. È piuttosto una costruzione che nasce dall’incontro tra il mondo e una coscienza capace di interpretarlo. Gli anelli di un albero “contengono informazione” sulla sua età biologica solo se qualcuno conosce la regola per leggerli. «L’unico fatto fisico è che c’è una covarianza esatta tra il numero degli anelli e l’età dell’albero nel corso degli anni», scrive Searle nel bel libro Il mistero della coscienza. Senza osservatore, senza coscienza, restano soltanto cerchi nel legno. Peraltro, Searle vede l’informazione come un concetto totale, anche perché in inglese il termine information è uncountable (non numerabile: si dice “some information”, non “an information”; e non ammette plurale: al limite si parla di pieces of information). L’informazione non è un ente che esiste di per sé, ma un continuum relazionale che acquista senso solo in rapporto a un osservatore. In italiano, invece, rischiamo di “reificare” il concetto, ossia di pensare alle diverse informazioni come “pacchetti” già pronti da trasmettere o scambiare. Per il giornalismo, questa divergenza non è irrilevante: aiuta a ricordare che una notizia non è mai un oggetto neutro, ma il risultato di un processo interpretativo che trasforma fatti in origine muti e non interpretati in conoscenza condivisa.
Searle è noto peraltro per la sua incessante battaglia contro la riduzione della mente a un puro calcolo computazionale. Il filosofo americano contrappose il “naturalismo biologico” sia al materialismo riduzionista (che riduce gli eventi mentali a mere proprietà materiali), sia al dualismo (che sostiene l’irriducibilità di mente e corpo): la coscienza è un fenomeno biologico emergente, irriducibile, causato dai processi del cervello. Non è un fantasma nella macchina (ghost in the machine, per usare una metafora del filosofo Gilbert Ryle, resa celebre da un omonimo disco dei Police di Sting), né è riconducibile a un puro processo computazionale, come ha sostenuto anche il matematico Roger Penrose nel suggestivo libro La mente nuova dell’imperatore. È una proprietà reale del mondo, dipendente dalla nostra esistenza in prima persona. Con il celebre esperimento mentale della “stanza cinese”, Searle mostrò l’illusione di scambiare la manipolazione di simboli per autentica comprensione: fu un argomento devastante contro la tesi dell’Intelligenza Artificiale forte, ossia l’idea per cui un computer opportunamente programmato possa possedere una mente e una coscienza. La sintassi (le regole formali per manipolare simboli) non riesce da sola a giustificare quello che il linguista Noam Chomsky chiamava il componente semantico (il significato). Un computer manipola simboli senza comprenderli, esattamente come un uomo in una stanza che si serva di un manuale per rispondere a domande in cinese, senza conoscere la lingua. Il parallelismo con il mondo dell’informazione è evidente: un algoritmo può processare e diffondere miliardi di dati, ma non ne comprende il significato, né riesce a immedesimarsi nelle emozioni che essi possono veicolare. Spetta al giornalista, alla sua coscienza e alla sua etica, fornire quel significato.
Ogni notizia è costruita a partire da fatti che, da soli, non “parlano”: sono gli occhi e la coscienza dell’osservatore – il cronista, il lettore, il cittadino – a trasformare i dati in informazione. Lungi dall’essere un mero flusso di bit, l’informazione giornalistica implica un contesto, una responsabilità, e molteplici punti di vista. In un’epoca contrassegnata da fake news, algoritmi e modelli linguistici di grandi dimensioni (Large Language Models) che generano testi apparentemente sensati, Searle ci ricorda che senza coscienza non c’è vera informazione, ma solo segnali manipolati.
Il suo contributo, però, va ben oltre. Nella filosofia del linguaggio Searle ha ridefinito il concetto di atto linguistico (desunto dal filosofo analitico John Langshaw Austin e prima ancora dal fenomenologo Adolf Reinach): parlare non significa solo descrivere il mondo, ma compiere azioni – promettere, ordinare, dichiarare. Anche qui l’informazione non è neutrale: attraverso le parole si compiono azioni e si fabbricano oggetti immateriali, per così dire (How to Do Things with Words era il titolo di un libro di Austin), e ciò che viene detto modifica la realtà sociale. È la stessa intuizione che ritroviamo nella sua teoria della realtà sociale: istituzioni come il denaro, i contratti o i governi esistono perché condividiamo regole e credenze che li sostengono.
Per questo potremmo benissimo immaginare Searle come una figura-ponte tra la filosofia e il giornalismo: se è vero che la coscienza è il fondamento che rende possibile interpretare l’informazione, allo stesso modo la società democratica richiede che l’informazione giornalistica sia orientata alla verità e alla responsabilità in quella che un altro filosofo della generazione di Searle, Jürgen Habermas, ha definito “sfera pubblica”. La libertà di stampa non è solo un diritto formale, ma una condizione quasi ontologica della vita civile: senza la coscienza critica dei cittadini, i fatti rimangono ancorati alla loro “nuda” esistenza.
Il pensiero di Searle mostra allora una lezione di grande attualità: l’informazione non è un deposito di dati, ma un processo che unisce mondo, linguaggio e coscienza. Questo vale per le neuroscienze, che devono spiegare come i processi cerebrali generano stati soggettivi; vale per l’intelligenza artificiale, che potrà simulare conversazioni ma non per questo sarà cosciente; vale, soprattutto, per il giornalismo, chiamato a trasformare i fatti in conoscenza condivisa. Questo punto, apparentemente astratto, diventa decisivo nell’epoca della comunicazione digitale. Lo ricordava anche un altro grande intellettuale coetaneo di Searle, Umberto Eco, quando nelle sue teorie semiotiche parlava della differenza tra il rumore del segnale e la costruzione di senso: il web moltiplica i bit, ma non garantisce conoscenza e autentica informazione. Del resto, un chatbot può “sembrare” intelligente, ma non sa nulla di ciò che dice: confondere simulazione e verità significa aprire la strada alla disinformazione.
Un altro filosofo che ha fatto propria la lezione di Searle, Maurizio Ferraris, nel parlare di “documedialità”, ha mostrato come i documenti digitali producano realtà sociali nuove, plasmando l’opinione pubblica e la vita civile: una dichiarazione o una promessa non descrivono soltanto il mondo, ma lo cambiano, proprio come auspicava Marx nelle celebri Tesi su Feuerbach. La costruzione della “realtà sociale” è l’altro grande tema di Searle. Il mondo che ci circonda (denaro, proprietà, Stato, istituzioni) non esiste per ragioni fisiche, ma perché l’intenzionalità collettiva umana gli conferisce una funzione attraverso gli atti linguistici. Una banconota è solo un pezzo di carta finché non decidiamo, collettivamente, che vale cento euro. Ma questo non vale solo per un contratto o per il denaro, ma anche per le notizie: l’informazione giornalistica non è mai neutra, è un atto che crea conseguenze. È qui che ritorna il ruolo della libertà di stampa, come ossigeno della democrazia. Senza giornalisti capaci di interpretare, verificare e dare significato ai fatti, rimaniamo in balìa di segnali privi di senso, di fake news e di manipolazioni: Il giornalista, a differenza di un algoritmo, non si limita a elaborare simboli, ma esercita l’intenzionalità per interpretare e trasmettere la realtà sociale.
Il giornalismo ha quindi la missione cruciale di raccontare onestamente questa realtà costruita. Se la notizia si riduce a propaganda o manipolazione, viene meno il patto di onestà tra emittente e ricevente, e crolla l’architettura di verità su cui si fonda la nostra società. Il linguaggio non è solo descrittivo, ma performativo: crea fatti. Un’informazione onesta, in questo senso, è un atto sociale che mira a consolidare una realtà basata sulla trasparenza e sulla critica.
