Giornalismo sotto attacco in Italia

In difesa del popolo iraniano

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L’Iran esplode, brucia tra le sue contraddizioni e piange le sue vittime, autentici martiri di un regime sempre più crudele e che purtroppo non dà scampo agli oppositori.
E così, mentre assistiamo a orrori su orrori in ogni angolo del mondo, ecco che una delle tirannidi più feroci e pericolose al mondo può agire quasi indisturbata, a dimostrazione di quanto sia ipocrita il doppio standard occidentale a proposito dei diritti umani.
Perché è doveroso indignarsi per ciò che sta accadendo in Ucraina e ancor più per la barbarie cui assistiamo ogni giorno a Gaza, dove ormai è in atto una sorta di “soluzione finale”; vien da chiedersi, tuttavia, perché sui media occidentali non trovino mai spazio i nomi di persone che rischiano la vita nelle carceri inventate dalle vestali della dittatura teocratica per perpetrare il proprio potere.
Alireza Madrasi, Farshad Etemandifar e Masoud Jamei: ne citiamo giusto tre, ma l’elenco è sterminato e non possiamo continuare a tacere. Quest’idea in base alla quale ci si occupa di diritti umani a seconda di chi li viola, la stessa che sta caratterizzando la discrepanza di giudizio e azione fra il popolo ucraino e quello palestinese, dà infatti la misura della crisi morale e democratica del nostro universo culturale e politico. È nel silenzio, difatti, che si consuma l’ingiustizia, che ha luogo un’ondata di impiccagioni senza fine e che la stessa informazione abdica al proprio ruolo. È nel silenzio che vengono meno la nostra funzione e la nostra dignità. Ed è nel silenzio che moriamo ogni giorno anche noi, complici neanche troppo involontari di un abisso che ci sta travolgendo, in quanto mette in dubbio la nostra credibilità.
Sarebbe bello, dunque, oltre che assai opportuno, se ogni giorno ciascun giornale e telegiornale trasmettesse un’ampia striscia informativa nella quale facesse conoscere all’opinione pubblica nomi e cognomi di coloro che rischiano di essere assassinati, a Teheran e dintorni, per l’unica colpa di voler liberare il proprio Paese dall’oppressione di una tirannia retrograda che dura ormai da quarantasei anni. Nomi, cognomi, volti e storie, proprio come abbiamo fatto meritoriamente quando si è trattato della collega Cecilia Sala e come non stiamo facendo, indegnamente, nel caso del cooperante Alberto Trentini, recluso in Venezuela da oltre otto mesi senza che quasi nessuno muova un dito per chiederne la liberazione.
“La democrazia muore nell’oscurità” recita il motto simbolo del Washington Post: non è mai stato così vero. E prima o poi qualcuno ci chiederà conto della nostra pavidità, mentre Gaza moriva, l’Iran veniva abbandonato a se stesso e noi eravamo intenti a sanzionare un discutibile direttore d’orchestra russo per dimostrare di essere puri e dalla parte del bene. Noi, che abbiamo reso omaggio a Putin fino al 23 febbraio 2022, che tuttora, in alcuni casi, giustifichiamo Netanyahu e che, quando si parla di Iran, prima ci domandiamo cosa ne pensi al momento l’amministrazione Trump. Noi, un tempo giornalisti e ora chissà…

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