BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

Bertha von Suttner «Ambasciatrice di pace»

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Dedichiamo la rubrica “Dalla parte di lei” di questo mese ad una figura scarsamente conosciuta in Italia, Bertha von Suttner, la «baronessa della pace» nota nel mondo come una vera e propria «ambasciatrice di pace», per l’impegno profuso instancabilmente, lungo l’arco della sua vita, per la pace e per l’abolizione delle guerre. La prima donna a essere insignita nel 1905 del Premio Nobel per la Pace. Ricordiamo che la moneta da due euro, coniata in Austria nel gennaio 2002, reca impressa la sua effigie, giusto riconoscimento per il suo lavoro a favore della pace.

Riteniamo, con questa scelta, di onorare degnamente la “giornata contro la violenza sulle donne” perché il militarismo e l’ideologia che lo sostiene, fondata sulla violenza, la prevaricazione, l’abuso, il non rispetto dell’altra/o, sono l’espressione più alta di quel patriarcato i cui stereotipi culturali (purtroppo ancora saldamente radicati anche nei giovani) generano e giustificano i femminicidi e la violenza contro le donne.

25 anni fa, il 17 dicembre 1999 le Nazioni Unite proclamano il 25 novembre Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne.

Nella scelta del giorno, il 25 novembre di ogni anno, un significato profondo.

Il 25 novembre del 1960 Patria, Minerva e Maria Teresa le tre sorelle Mirabal, impegnate nella “rivoluzione” in atto nella Repubblica Dominicana contro la dittatura (1930 -1961) di Rafael Trusjillo, sono arrestate e uccise dopo violenze torture e stupri. Negli anni successivi le femministe latino-americane e caraibiche decidono a Bogotà (1981) di scegliere quell’assassinio come emblema della violenza contro le donne e le sorelle Mirabal come simbolo della forza delle donne di tutto il mondo. Julia Alvarez pubblica nel 1994 Il tempo delle farfalle, dove ne racconta la storia.

La violenza contro le donne continua ad essere un ostacolo allo sviluppo, alla pace, alla realizzazione dei diritti umani, al superamento della disuguaglianza nei rapporti tra uomini e donne in tutto il mondo e, con più acutezza, nei troppi luoghi di conflitti e guerre come constatiamo in questi mesi di tragedie e massacri anche vicino a noi.

Grandissime manifestazioni in questi giorni alimentano la speranza di cambiamento e di superamento di tutte le guerre e violenze.

“Il patriarcato” continua a produrre vittime: 106 le donne e trans uccise dall’inizio dell’anno.

 

Bertha von Suttner «Ambasciatrice di pace»

Dall’11 al 16 novembre 1891 si è tenuta una Conferenza mondiale per la Pace a Roma, in Campidoglio, presieduta dal ministro dell’istruzione Ruggero Bonghi, a cui hanno partecipato i rappresentanti di una ventina di Stati non solo europei. In quella occasione, una donna ha preso la parola per la prima volta in Campidoglio: la baronessa Bertha von Suttner ha fatto risuonare il timbro della sua voce con un discorso appassionato, in qualità di presidente della Lega per la Pace austriaca. Ecco il ritratto che di questa “paladina della pace” rimane nelle cronache del tempo:

In novembre del 1891, in una sala del Campidoglio, inaugurandosi a Roma il Congresso della pace, dopo un discorso di Ruggero Bonghi, dopo il saluto del sindaco, una donna, di nobile e severo aspetto, elegante nel vestire, chiese la parola per spiegare in nome di quali principi ella si presentava. Tutti gli sguardi si conversero su di lei; e per la sala corse, bisbigliato, un nome già celebre: baronessa Berta von Suttner, l’autrice di Abbasso le armi! Ella parlò in francese, con l’efficacia della convinzione, in uno stile vivo, colorito, in favore dell’ideale della sua vita, la fratellanza tra i popoli, la guerra alla guerra, l’arbitrato internazionale. Prese parte a tutte le sedute del Congresso, vi fu eletta vice-presidente, vi parlò spesso e cercò di mettere l’accordo fra le varie tendenze (Tirone 1996).

Bertha von Suttner era arrivata a Roma già circondata di fama e di prese di posizione polemiche. La fama era legata al successo del suo romanzo antimilitarista (Abbasso le armi!) pubblicato nel 1889 dove, per la prima volta, una voce femminile osava denunciare il militarismo, l’economia di guerra che investiva in armamenti sempre più costosi e letali, le responsabilità dei governi e del sistema educativo orientato a formare militari e soldati anziché uomini.

Ma soprattutto nelle pagine del romanzo venivano svelate le mistificazioni dei comandi militari, i legami tra la guerra e la miseria e le sofferenze della popolazione; in particolare venivano nominati per la prima volta i dolori e le sofferenze delle donne, vittime sacrificali della follia della guerra e della violenza maschile giustificata dagli stereotipi di virilità e orgoglio del vincitore. Le polemiche, generate dall’ideologia militarista della violenza e del sopruso, negando alla donna la possibilità di dar voce alla sua aspirazione alla pace, la riducevano a vestale del focolare domestico.

Una figura di donna lungimirante, quella di Bertha von Suttner, denominata anche la “Baronessa della pace”, anticipatrice di un pensiero critico radicale nei confronti dell’apparato militare e dell’ideologia che lo sostiene. Attaccata dalla stampa conservatrice del tempo come «la strega della pace», spesso raffigurata in vignette satiriche di impronta misogina, Bertha von Suttner ha speso gran parte della sua vita in un impegno costante e appassionato a favore della pace e per far cessare le guerre in Europa e nel mondo. Durante la Conferenza mondiale per la pace di Roma, la raggiunse un messaggio augurale di Lev Tolstoj che, conoscendo la sua infaticabile attività a favore della pace, le scriveva: «Apprezzo molto il suo lavoro che auguro sia di felice auspicio per l’abolizione della guerra come lo fu, per l’abolizione della schiavitù, La capanna dello zio Tom, della signora Beecher Stowe». Bertha, nei suoi discorsi, si rivolgeva di frequente alle donne, incitandole ad uscire dal silenzio e a far sentire la loro voce a favore della pace: «le donne non staranno zitte. Noi scriveremo, terremo discorsi, lavoreremo, agiremo. Le donne cambieranno la società e loro stesse».

Poco conosciuta in Italia, la sua figura è rimasta a lungo opacizzata, scarsamente valorizzata anche all’interno del pacifismo italiano tra fine Ottocento e primo Novecento. Merita invece di essere riportata al centro della scena, riconoscendole un’importante funzione simbolica.

Bertha Sophia Felicita dei conti Kinsky von Chinic und Tettau (Praga 1843 – Vienna 1914), originaria della Boemia, era nata e cresciuta in un ambiente aristocratico: la famiglia paterna era una delle più altolocate, molto vicina alla corte imperiale; il padre, il feldmaresciallo Franz-Josef era stato aiutante in campo del maresciallo Radetsky. Secondo le consuetudini dell’aristocrazia del tempo, Bertha aveva ricevuto un’ottima educazione, aveva frequentato assiduamente la biblioteca paterna, aveva appreso diverse lingue e la madre le aveva trasmesso un forte amore per la poesia e la letteratura. Le vicende familiari la costrinsero molto presto a fare esperienza del mondo e a provvedere a se stessa, ma l’unica occupazione tollerata per una giovane donna di nobili origini era quella dell’istitutrice. Così Bertha trovò una collocazione sociale come istitutrice presso la casa del barone von Suttner, che le affidò l’educazione delle sue quattro figlie. In quella casa, oltre ad un’affezione profonda alle quattro ragazze affidate alle sue cure, Bertha si legò sentimentalmente al figlio del barone, Arthur, sposandolo in segreto dopo qualche anno, nel 1876, nonostante la forte contrarietà della famiglia. Già prima del matrimonio Bertha aveva cominciato a viaggiare per il mondo e ad aprire i suoi orizzonti, entrando in contatto con un pensiero critico e con figure autorevoli del nascente pacifismo europeo. Nel suo breve soggiorno parigino del 1876, per esempio, era stata assunta come segretaria dallo scienziato Alfred Nobel. Negli anni ’80 era entrata in contatto con il filantropo inglese Hodgson Pratt che, in anticipo sui tempi, aveva fondato a Londra la International Arbitration and Peace Association per la soluzione diplomatica dei conflitti, una prefigurazione di quella che sarebbe diventata nel secondo dopoguerra l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Nel contempo, in Europa stavano nascendo movimenti e associazioni pacifiste, sull’onda emotiva delle stragi e degli orrori della guerra di Crimea e della guerra dei Piemontesi contro gli Austriaci in Italia (1859), denunciati dal letterato e filantropo svizzero Henry Dunant.

Abbasso le armi! Storia di una vita (titolo originale: Die Waffen nieder! Eine Lebensgeschichte) è il libro più noto della baronessa Bertha von Suttner, la prima donna a cui viene conferito nel 1905 il Premio Nobel per la pace, «for her audacity to oppose the horrors of war», come si legge nella motivazione ufficiale (Suttner 1996).[1] Scritto e pubblicato nel 1889 in prima edizione e, dopo una accurata revisione dell’autrice, in edizione definitiva nel 1892, il romanzo è stato subito tradotto in 20 lingue, ottenendo un grande successo di pubblico, tanto da essere annoverato tra i libri più letti dell’ultimo decennio dell’Ottocento e del primo decennio del Novecento: un vero e proprio best seller. Il libro è la risultante di riflessioni, studi e contatti epistolari con esponenti del pacifismo ma anche di ricordi d’infanzia e di esperienze vissute nella sua giovinezza tra l’aristocrazia della corte asburgica intrisa di retorica patriottica e bellicista. Bertha von Suttner denuncia il pericoloso insorgere dei nazionalismi in Europa, la corsa agli armamenti giustificata da un patriottismo e una propaganda mistificatoria. E sarà lei con lucida lungimiranza, a stabilire per prima, una connessione forte tra femminismo e pacifismo: le donne sono più sensibili alla causa pacifista, sono contrarie alla follia della guerra e all’ideologia militarista fondata sulla violenza e sulla sopraffazione.

Abbasso le armi! ha la forma letteraria di un romanzo, è diviso in due libri (Libro primo e Libro secondo) scanditi complessivamente in sei parti che corrispondono ad altrettanti momenti storici segnati da eventi bellici che contribuirono a modificare l’assetto geo-politico dell’Europa nella seconda metà dell’Ottocento.[2] La narrazione è condotta in prima persona e la voce narrante è quella della contessina Marta Althaus, appartenente ad una nobile e ricca famiglia viennese, che racconta la sua giovinezza, dall’età di diciassette anni, e la successiva maturità, lasciandosi guidare da «i fogli del mio diario» («quegli strani fogli, legati in rosso, rivelano più malinconia che non gioia di vivere»). Pur essendo evidenti alcuni sigilli autobiografici dell’autrice, non si tratta di un’autobiografia bensì di una finzione letteraria fondata su un recupero memoriale che trova un valido ausilio nei «fascicoli rossi» che recano traccia di una specie di ‘giornale intimo’:

Questi fascicoli rossi, oggi che voglio rievocare le mie memorie, mi rendono un gran servizio, perché mi danno la possibilità di raccontare gli avvenimenti trascorsi, di cui non è rimasta nella mia mente che un’immagine vaporosa, e persino di riferire nei loro più minuti particolari riflessioni e discorsi da molto tempo dimenticati (ivi, p. 11).

Così alle «mie memorie», che ripercorrono la vita sentimentale e familiare della protagonista, s’affiancano «riflessioni e discorsi» che sviluppano una critica serrata alla società del tempo e alla sua «etichetta convenzionale» («‘astenersi dal riflettere’ ecco il precetto della buona creanza») (ivi, p. 30). Le riflessioni della protagonista vanno controcorrente rispetto al pensiero dominante sulla guerra e vertono principalmente sull’«educazione patriottica» infarcita di retorica bellicista che mistifica la realtà e la distorce, giustificando la guerra in nome della difesa della patria e della famiglia. Il marito di Marta giustifica così la sua partenza per la guerra: «Noi uomini dobbiamo combattere appunto per proteggerlo [scil.: il focolare domestico] e garantirlo dagli assalti del nemico e per conservare la pace alla nostra casa e alle nostre donne» (ivi, p. 20). A fronte di queste parole, la riflessione tacita di Marta è di questo tenore:

Se mio marito desiderava combattere, non era per la stringente necessità di difendere le donne, i bambini, la patria, ma per amore dei cambiamenti avventurosi che la vita in guerra offre, per desiderio di mettersi in mostra, di avanzare di grado … insomma, conclusi, per ambizione (ibid.).
Nel racconto retrospettivo della propria «vita», Marta riflette insistentemente su quella «esagerata ammirazione per la guerra» e sull’ideologia bellicista che circola presso la corte imperiale e gli alti ranghi dell’esercito. Suo padre, in particolare, si fa paladino della necessità della guerra per consolidare ed espandere l’egemonia della casa d’Asburgo: i suoi discorsi rinforzano la communis opinio sul patriottismo e sull’eroismo necessari alla «difesa della patria» (ivi, p. 165 e sgg.). A fronte del militarismo incarnato dal padre, protagonista di numerose campagne militari, Marta si fa portavoce di un pensiero di opposizione radicale alla guerra: «la guerra. Ah, se si potesse abolirla» (ivi, p. 161). E se, all’altezza del primo matrimonio, è ancora condizionata dai miti eroici di cui era stata imbevuta la sua educazione giovanile, inizia presto una presa di distanza da questa cultura:

La storia! È proprio la storia, così come viene insegnata ai giovani, a suscitare l’ammirazione per la guerra. S’imprime nella mente dei ragazzi che il Signore degli eserciti vuole continue battaglie […] Vi è forse una morte più bella che quella sul campo dell’onore, un’immortalità più nobile di quella dell’eroe? (ivi, pp. 7-8).
La sua critica si rivolge in particolare al «sistema di educazione patriottica» allora vigente che, anziché potenziare «l’innata avversione che gli orrori della guerra possono provocare», tende a parlare «con la massima naturalezza di orribili stragi e di spaventose carneficine come di cose fra le più naturali e necessarie del mondo, si ferma l’attenzione soltanto sul lato ideale di questo antico costume dei popoli, riuscendo in tal modo a formare una razza battagliera e coraggiosa» (ivi, p. 8). La protagonista prende le distanze da questo sistema educativo che incentiva «l’ambizione personale» e «l’orgoglio nazionale», prefigurando per il proprio figlio un percorso formativo mirato a farne un uomo e non un soldato:

Soldato…? No. A ciò non sarebbe stato adatto, perché nel nostro piano di educazione non avrebbe trovato posto alcun esercito che sviluppasse in lui l’amore per la gloria militare (ivi, p. 160).

Le riflessioni di Marta si sforzano di problematizzare il pensiero dominante sulla guerra, andandone a decostruire il significato intrinseco, ponendosi con insistenza alcune domande cruciali:

Difensore della patria, questo è il titolo altisonante con cui si battezza il soldato. E infatti, quale dovere è più nobile per i membri di una comunità che il difenderla quando essa è in pericolo? Ma perché allora il giuramento sulla bandiera obbliga il soldato a cento altri doveri oltre a quello della semplice difesa? Perché deve anche assalire? Perché deve mettere a rischio le sue sostanze, la sua vita, il suo focolare, quasi si trattasse – come si dice per giustificare la guerra – di proteggere la vita, il focolare dei propri concittadini, anche quando nessuno minaccia la sua patria, bensì unicamente le contese, l’ambizione di principi spesso stranieri? Perché […] Perché, perché? (ivi, pp. 194-195).

 

A fare da sponda al pensiero di Marta sono le prese di posizione, ispirate da un «sentimento di pietà verso l’umanità», del suo secondo marito Tilling, anch’egli un ufficiale dell’esercito imperiale che non nasconde «l’orrore e l’odio che mi ispira questa carneficina comandata» (ivi, p. 177). Tilling denuncia le atrocità della guerra, essendone stato testimone oculare:

Ma dopo aver visto la realtà del macello, dopo essere stato testimone dello scatenarsi dei più brutali istinti, il mio entusiasmo è svanito e alle battaglie successive io andai non più volenteroso, ma rassegnato (ivi, p. 132).

E denuncia le mistificazioni che i governi e gli apparati militari costruiscono attorno alle loro imprese belliche:

E nel gioco della guerra esistono queste tacite convenzioni. Ammazzare non significa più ammazzare; la rapina non si chiama più rapina, ma requisizione; i villaggi messi a fuoco non rappresentano più un colossale incendio , ma semplicemente una posizione presa. E finché la partita dura, le leggi del codice, del catechismo e dei costumi «non contano». Ma se la sovraeccitazione diminuisce, se il convenzionale non conta per un momento scompare dalla mente e la scena circostante è abbracciata in tutta la sua crudele realtà, se si capisce che questa sciagura senza fine, questo delitto di massa, conta qualche cosa, allora si vorrebbe – per sottrarsi all’orrore di una tale scoperta – essere piuttosto fra i morti (ivi, pp. 134-135).   Interessante segnalare che, facendo propria l’idea dell’inglese Hodgson Pratt, Bertha von Sutter prefigura, nelle pagine del suo romanzo, come deterrente alla guerra un «arbitrato internazionale»:

Se noi ci unissimo tutti? Tutte le persone ragionevoli, buone, giuste, per respingere questo male che ci minaccia? (ivi, p. 166).

La proposta suscita quasi l’ilarità tra gli alti ufficiali dell’esercito che non considerano loro mission «mantenere sempre la pace […] una bella missione, ma ineseguibile». Di fronte al conflitto tra due popoli, qualcuno suggerisce, un po’ in sordina, un’analogia con quanto avviene tra persone civili che affidano la soluzione delle loro controversie ad un tribunale. Lo stesso dovrebbe avvenire nelle relazioni tra gli stati: non la belligeranza, bensì un organismo in grado di dirimere i conflitti tra i popoli, un “Tribunale” per i popoli, appunto:

Per cui i popoli sono ancora selvaggi nei loro rapporti, e dovrà passare ancora molto tempo prima che riescano ad istituire un arbitrato internazionale (ivi, p. 167).
È il primo barlume di quella che, più di mezzo secolo più tardi, nel secondo dopoguerra sarebbe diventata l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Un pensiero di estrema attualità, come si può ben capire!

In Italia il romanzo di Bertha von Sutter viene tradotto e pubblicato per la prima volta nel 1897, presso l’editore Treves di Milano, su suggerimento di Matilde Serao, con il titolo Abbasso le armi. Storia di una vita. La vibrante condanna di ogni guerra è il filo rosso che attraversa tutto il romanzo, facendone un manifesto del pacifismo europeo di quegli anni e suscitando scalpore fra i benpensanti. Il romanzo è ambientato nella seconda metà dell’Ottocento e chiama in causa alcune guerre che funestarono l’Europa in quell’arco cronologico, coinvolgendo anche il territorio italiano, in particolare il Lombardo-Veneto. Per i generali austriaci, le guerre del 1848 e del 1859 avevano come obiettivo di arginare l’espansionismo del Regno di Sardegna: i territori del Lombardo-Veneto venivano considerati una periferia dell’Impero da conservare e controllare. Una narrazione che interessa direttamente l’Italia perché si parla delle cosiddette “guerre risorgimentali”, viste e raccontate da un punto di vista insolito e imprevisto, quello dell’esercito austro-ungarico.

Dopo il successo del romanzo, Bertha von Suttner divenuta l’ambasciatrice permanente del movimento pacifista, vero e proprio «commesso viaggiatore della pace», come veniva appellata, e continua a spendersi attivamente per la pace in Europa.

Al quarto Congresso mondiale della pace, tenutosi a Berna, tiene una relazione assieme al pacifista italiano Teodoro Moneta, futuro Nobel per la pace, sul tema: La Confederazione degli Stati Uniti d’Europa. Nel 1899 organizza all’Aja, assieme alla femminista tedesca Margarethe Selenka, la prima manifestazione pacifista internazionale delle donne, evidenziando la stretta relazione tra l’emancipazione della donna e l’ideologia militarista espressione massima del patriarcato.

Dopo la morte di Alfred Nobel, facendo riferimento al suo testamento, Bertha ribadisce in diverse occasioni la sua forte rilevanza per il movimento pacifista, perché di fronte a tutto il mondo esso enuncia a chiare lettere «l’affratellamento dei popoli, la riduzione degli eserciti e la sfida dei congressi della pace» che mirano a costruire la felicità dell’intera umanità.
Negli ultimi anni della sua vita continua a dedicarsi con impegno e passione alla nobile causa della pace, prefigurando la necessità di un’unione degli Stati d’Europa per fare argine alle guerre e ai conflitti tra gli stati. Muore a Vienna, il 21 giugno 1914, mentre sta lavorando all’organizzazione della xxi Conferenza di pace che avrebbe dovuto tenersi a Vienna in settembre. Le viene così risparmiato di dover assistere all’«inutile strage» della prima guerra mondiale, lei che «immensa e generosa Cassandra dei nostri tempi» aveva gridato al mondo per decenni l’urgenza di ripudiare ogni forma di guerra.

[1] Qui e in seguito si fa riferimento all’edizione italiana moderna: Bertha von Suttner, Abbasso le armi! Storia di una vita, a cura di Giuseppe Orlandi, Prefazione di Laura Tirone, Centro Stampa Cavallermaggiore, 1996.

[2] Il Libro primo comprende: Parte prima 1859; Parte seconda Tempo di pace; Parte terza 1864. Il Libro secondo comprende: Parte quarta 1866; Parte quinta Tempo di pace; Parte sesta 1870-1871; Epilogo 1889.

 

 

 


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