Conflitti dimenticati e giornalismo di guerra, la centralità del lavoro dei freelance

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Dalla poca attenzione dedicata dai media mainstream ai conflitti e alle crisi dimenticate all’utilizzo sempre più frequento dei grandi giornali e tv di freelance che vanno nelle zone calde a loro rischio e senza copertura.
questi i temi al centro del corso di formazione che si è tenuto in sala Walter Tobagi alla Federazione nazionale della stampa il primo marzo, giorno dedicato alla manifestazione di solidarietà ai report impegnanti nel conflitto in Medioriente. La giornalista Antonella Napoli, che ha moderato l’incontro ha iniziato il suo intervento proprio ricordando i tanti colleghi caduti a Gaza, in Cisgiordania e in Libano sotto il fuoco dell’esercito israeliano e sottolineando “la difficoltà del racconto giornalistico tra le opposte propagande”.

“Chiunque conosca quei territori e osservi con attenzione ciò che sta avvenendo a Gaza non può che constatare quanto le narrazioni che si sono dipanate a partire dal 7 ottobre sui nostri media e sui media esteri non siano mai del tutto coerenti sulla vastità del dramma delle popolazioni e sulle responsabilità del massacro in atto nella Striscia.

Ha poi evidenziato “la difficoltà di chi sta provando a lavorare sul campo ad arrivare al centro del conflitto. La guerra in corso non ha visto solo un numero record di operatori dell’informazione uccisi, ma ha visto precludere alla stampa internazionale l’accesso a Gaza se non “embedded”.

Per questo si è rivelato cruciale il ruolo dei reporter locali, a Gaza e in Cisgiordania come in Israele, costretti a operare, tra mille difficoltà, censure, notizie false” ha spiegato la giornalista e scrittrice, che in oltre 30 anni di professione ha realizzato reportage dall’Africa al Medioriente, dall’Asia al Centro America, sottolineando come sia cambiato negli anni l’approccio giornalistico ai conflitti e che i giornali utilizzano sempre di più i freelance, che vanno nelle zone calde a loro rischio, senza copertura e a volta anche senza un’adeguata preparazione – aggiunge – E non investono più per avere fonti dirette sul posto. Infine ha evidenziato gli obblighi deontologici per “un giornalismo fedele al suo scopo” e  il linguaggio più corretto dal e sul campo nella cronaca di guerra.
Tra i relatori Guido D’Ubaldo, presidente Odg Lazio; Lucia Visca, giornalista ed editrice All Around; Maria Stefania Cataleta, coordinatrice Gruppo Minori Amnesty International e avvocata patrocinante Tribunale dell’Aja, Matteo Palamidesse, fixer e collaboratore di Focus on Africa.

Lucia Visca, direttore editoriale della casa editrice che ha di recente pubblicato l’ultimo libro di Antonella Napoli sul fenomeno dei bambini soldato ha rivendicato l’attenta osservanza al rispetto della Carta di Treviso nello scrivere questo libro da parte dell’autrice e ha poi ricordato come “la narrazione giornalistica non nasce e muore nel momento in cui si organizza un reportage, un articolo o un servizio televisivo. Esistono delle regole relative ai principi che già nel 1990 hanno  convinto Telefono azzurro, l’Ordine dei Giornalisti e la Federazione Nazionale della Stampa a lavorare insieme alla Carta di Treviso per una cultura dell’Infanzia. Oggi dobbiamo stare molto attenti, perché spesso si genera molta confusione a causa dell’infotainment, ossia la possibilità di spettacolarizzare il dolore. Ma non solo. Si può fare arrecare un danno psicologico irreversibile a un minore di cui non si rispetto il diritto all’anonimato” la conclusione di Visca.

L’avvocata Maria Stefania Cataleta, una dei rari legali italiani abilitata al patrocinio innanzi alla Corte penale internazionale, oltre che al Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, alle Camere Straordinarie presso le Corti della Cambogia e al Tribunale Speciale per il Libano, ha puntato l’attenzione sulla violazione dei diritti umani nei confronti dei minori coinvolti nei conflitti, si stima che nel mondo ci siano non meno di 350 mila bambini costretti a vivere con un fucile in mano e a fare il lavoro più sporco della guerra. Quello che nemmeno un soldato di mestiere dovrebbe mai fare. Come torturare i civili o ammazzare i prigionieri. O correre sui campi minati per aprire il passaggio alle proprie truppe, come facevano nella guerra tra l’Iran e l’Iraq, per guadagnarsi un posto tra i martiri di dio.

L’avvocato Cataleta ha spiegato come si intende per bambino soldato, sottolineando che

“conformemente alla definizione partorita nel 1997 a Città del Capo in occasione dei lavori della Conferenza organizzata dall’UNICEF sulla prevenzione, la smobilitazione e la reintegrazione sociale dei bambini-soldato, questi ultimi sono “tutte le persone, maschi o femmine, con meno di 18 anni, appartenenti ad un esercito regolare o ad un gruppo comunque armato, arruolate su base volontaria o con la forza. Tuttavia, l’espressione riguarda anche chi ricopre ruoli di cuoco, portatore, messaggero, spia o venga arruolato ai fini di sfruttamento sessuale o costretto al matrimonio. La definizione, quindi, non riguarda solo i bambini che portano le armi. La loro età media risulta essere al di sotto dei 13 anni e questo vuol dire che vengono arruolati anche bambini molto piccoli, di 7 anni o meno”.

Matteo Palamidesse, cooperante e giornalista pubblicista, ha puntato l’attenzione sulle crisi umanitarie dimenticate, come quella in Etiopia seguita al conflitto nel Tigray, che Palamidesse ha raccontato ampiamente sulle pagine di Focus on Africa.

“Il poco spazio dedicato dai tg ai conflitti internazionali e alle crisi umanitarie (ndr solo il 4 per cento secondo il rapporto Msf) è dovuto in parte all’ idea che “siccome domina un certo livello culturale quello dobbiamo seguire” ma anche a “valutazione economiche interne in un settore devastato dalla crisi economica”, che porta a centellinare il numero di inviati. Il silenzio del servizio pubblico su questi temi è molto grave” ha concluso Palamidesse.

Nelle battute finali, Antonella Napoli ha ulteriormente approfondito i motivi che spingono le testate generaliste a “scelte editoriali basate su quello che si ritiene essere l’interesse comune. Si pensa che alcuni argomenti come le crisi o gli esteri non sia interessanti. Ma se guardiamo i dati della carta stampata sono disastrosi: si stanno facendo i giornali che si suppone voglia la gente, ma intanto tutte le testate continuano a perdere copie”.


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